Dal 2021 come CSOA Gabrio abbiamo deciso di rendere fruibile (e a disposizione delle/degli abitanti e non solo) ciò che portiamo nelle strade di Borgo San Paolo durante i cortei del 25 aprile.
Per questo abbiamo affiancato alla tante targhe messe negli anni un QRcode che permettesse, a chi si imbatte in una di queste, di conoscere la storia spesso dimenticata di quei luoghi, di quegli edifici o di quelle strade in cui si è portata avanti la lotta dei e delle partigiane e di coloro che hanno deciso di alzare la testa e agire contro il fascismo.
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Affinché la Memoria non sia solo un ricordo, ma uno strumento di lotta e di conoscenza contro i fascismi di ieri e di oggi.
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Casa resistente delle Sorelle Montagnana
Via Monginevro 68
Ascolta la lettura su: circolo clandestino di mutuo soccorso e formazione popolare antipatriarcale socialista e comunista.
Parlare delle donne della famiglia Montagnana non è semplice, spesso quando si ricorda qualcuno che ha attraversato la storia lasciando un segno lo si rappresenta attraverso l’epica, la straordinarietà delle sue azioni. Le persone diventano eroi ed eroine da amare, portare ad emblema e in qualche modo rinchiudere nel mondo dorato del mito. Gli eroi sono perfetti e lontani. Le Montagnana ci raccontano di una storia diversa e per questo emblematica.
Donne intense di una famiglia che sapeva trasformarsi in comunità includente, aperta ,tenace e morbida. I racconti di chi c’era parlano di una casa aperta come uno spazio sociale, ricolma di libri, riviste clandestine e non, cibo condiviso poco o tanto che fosse.
Le compagne Montagnana Clelia, Elena, Rita, Gemma e Lidia erano ognuna militante ed ognuna consapevole ed attiva in modo personale e diverso. Clelia la maestra, giovanissima guidò le manifestazioni già durante la prima guerra al motto “o si fa sul serio o niente!” arrivando insieme a Rita a dar fuoco alla chiesa di San Bernardino colpevole di essere magazzino dell’industria bellica. Clelia che portava centinaia di donne ai comizi nei paesi di provincia per la sua capacità di raccontare e incendiare le anime di donne semplici ma curiose. Elena e Rita, militanti anche loro dalla prima guerra, subirono l’esilio, la morte di congiunti in carcere politico e battaglie, senza mai ripiegare, senza perdere la forza. Rita fu parlamentare e una delle troppo poche donne della Costituente. Gemma, la maggiore, i suoi quattro figli portati con serenità e senza timore in mezzo anche alle più feroci manifestazioni tra le due guerre. Presso di lei, insospettabile ai tempi in quanto madre , si nascondevano i testi più pericolosi. E infine Lidia che racconta di come la loro scelta autonoma di emanciparsi dalla cultura patriarcale sia naturalmente avvenuta abbracciando la causa socialista prima e comunista poi, e del loro andare giovanissime e sole alle riunioni tornando a tarda notte, attraversando due guerre ed il fascismo. Le montagnana erano anche questo, donne che hanno rifiutato la società patriarcale ed i clichè di genere, non si occupavano delle faccende domestiche, né della cucina, non cercavano marito, non si preoccupavano dei “malpensanti” si occupavano invece dei legami sociali e della lotta , della loro propria crescita, di chi aveva meno di loro e di chi non aveva strumenti culturali o pratici. Si occupavano di loro stesse e della loro comunità, si occupavano della propria dignità e libertà. Vorremmo chiudere questo intervento ricordando Consolina Segre, la madre, nata nel 1868 e fulcro di una intera famiglia che seppe far diventare comunità mantenendo umanità e individualità, crescendo gli otto figli in maniera completamente paritetica, lasciando che ognuno di loro seguisse la propria identità in maniera concreta e colma di valori. Moltissimo ci sarebbe da raccontare su questa famiglia straordinariamente normale ma vorremmo chiudere con una immagine; è il 1944 Consolina , in clandestinità in quanto ebrea, torna in via Monginevro facendo tappa durante un viaggio nato per fare visita ad un nipote partigiano sulle montagne. Trova i sigilli sulla casa che ha tanto amato e condiviso, la casa ormai è semi distrutta. Lei si accascia, ha settantacinque anni, viene accolta dai vicini ed amici, si rialza forza i sigilli e va a dormire a casa sua.
Sciopero alla Diatto contro la guerra
Via Frejus angolo Via Revello
Ascolta la lettura su: sciopero del 1917 contro la guerra
Sciopero alla Diatto contro la guerra – agosto 1917
Alle 9 di mattina di martedi 22 agosto 1917 il prefetto Verdinois invia un telegramma a Roma preannunciando il peggio nonostante la città sia ancora apparentemente calma, rinnovando la richiesta che arrivi il residuo quantitativo di grano ancora dovuto in dotazione alla provincia. Aggiunge: «Un ritardo può avere conseguenze incalcolabili».
Ma è ormai tardi: dopo l’interruzione del mezzogiorno, gli operai non vogliono riprendere il lavoro in due stabilimenti: le Officine Diatto-Frejus e la Proiettili Arsenale di via Caserta: poi sarà la volta delle operaie del Fabbricone di Borgo Dora.
Preziosa è la testimonianza di Mario Montagnana, operaio alle officine Diatto, quelle da cui si avvia lo sciopero.
Invece di entrare in fabbrica, – scrive nei suoi ricordi, – cominciammo a tumultuare davanti al cancello.
«Non abbiamo mangiato. Non possiamo lavorare. Vogliamo pane!»
Il padrone dello stabilimento, il cavalier Pietro Diatto, preoccupatissimo, si presentò egli stesso agli operai, tutto latte e miele:
«Avete ragione, avete ragione. Come si fa a lavorare quando non si è mangiato? Telefonerò subito alla sussistenza militare affinché mandino immediatamente un camion di pane. Però entrate in fabbrica e non fate sciocchezze. Ve lo dico per il vostro bene e per il bene delle vostre famiglie».
Gli operai tacquero un istante. Proprio solo un istante, si guardarono negli occhi, quasi per consultarsi tacitamente e poi, tutti assieme, ripresero a gridare:
«Ce ne infischiamo del pane! Vogliamo la pace! Abbasso i pescicani! Abbasso la guerra! »
E abbandonarono in massa l’officina, avviandosi chi verso il centro della città, alla Camera del Lavoro, e chi verso altri stabilimenti, per invitare gli operai ad unirsi allo sciopero.
Alla Proiettili, ad esempio, arrivano due camion di pane. La folla se ne impadronisce, mangia, ma non rientra al lavoro. È presto invocata dagli operai più decisi la strada di una dimostrazione politica.
Nel corso del pomeriggio «staccano» migliaia e migliaia di operai – tanto che tra le 16 e le 17 sono fermi praticamente tutti i grandi stabilimenti – a cominciare dai 2000 operai delle officine ferroviarie di Borgo San Paolo.
Una considerevole folla di lavoratori e lavoratrici si mette in marcia verso la Camera del Lavoro.
Il pomeriggio del 22 agosto iniziano i tumulti veri e propri: gruppi di operaie e operai attraversano la città gridando “Evviva la rivoluzione!” “Evviva Lenin!”. Il servizio tranviario cessa completamente.
I saccheggi si allargano rapidamente a vari rioni, sono assaliti negozi di salumeria, di trippai, di calzoleria; la polizia interviene qua e là; ma è impotente a frenare i tumulti.
Carabinieri e poliziotti cominciarono a sparare senza riguardi. Una prima barricata fu costruita in via Bertola.
Al mattino del giovedì 23 agosto lo sciopero si rivela pressoché totale nelle fabbriche principali, tanto che già alle 8,30 Verdinois si reca dal generale Sartirana per pregare l’autorità militare di assumere la tutela dell’ordine pubblico. Dal primo pomeriggio i poteri pubblici passano all’esercito.
Il centro resta relativamente tranquillo (relativamente, poiché un corteo di dimostranti irrompe in piazza Carlo Felice e – come ormai è una tradizione! – infrange i vetri del caffè Ligure a colpi di bastone e di pietre, mentre due persone vengono ferite e cento arrestate in piazza dello Statuto).
Ma sono Borgo San Paolo, la Barriera di Nizza, la Barriera di Milano i teatri delle violenze e degli scontri più aspri.
Rotaie del tram e della ferrovia di Lanzo divelte, barricate erette in molte strade
In Borgo San Paolo, nella stessa mattinata avvengono alcuni dei fatti più gravi. La folla saccheggia e incendia la chiesa di San Bernardino e l’attiguo convento dei frati.
Quasi contemporaneamente, anche la Chiesa della Pace alla Barriera di Milano viene invasa e saccheggiata. «Sul campanile fu issata la bandiera rossa, la cantina del parroco fu vuotata del vino e delle provviste che vi erano contenute e che furono distribuite alla folla».
Sempre nella stessa zona, due caserme delle guardie di città sono assalite.
La città viene letteralmente tagliata in due per impedire agli operai di congiungere le loro forze.
Il 24 agosto, venerdì, è la giornata che decide la sorte dell’insurrezione. Gli operai in rivolta cercano, specie la mattina, di rompere lo sbarramento frapposto tra i due focolai maggiori della periferia, ma senza successo.
I dimostranti sono poco e male armati: rivoltelle, bombe a mano, qualche fucile; l’esercito impiega mitragliatrici e tanks. Oltre che ai confini della Barriera di Milano e di San Paolo, un nuovo epicentro di scontri si forma nella Barriera di Nizza.
Si combatte sulle barricate di Ponte Mosca e il locale Commissariato di P.S. è preso d’assalto dai rivoltosi. Rotto lo schieramento della forza pubblica una gran massa di insorti, per Porta Palazzo e via Milano, si avvia verso il centro cittadino.
L’attacco, – narra il cronista di «Stato operaio», – procede vittorioso fin quasi al centro.
Ma la riscossa della forza pubblica è terribile. Entrano in campo le auto mobili blindate e si scagliano a corsa folle per le vie gremite, scaricando le mitragliatrici all’impazzata, sulla gente che fugge, su coloro che resistono, nelle finestre delle case, nelle porte e nei negozi, alla cieca. Le prime cifre sul numero dei morti, dei feriti, degli arrestati della giornata vengono comunicate a Roma dal comando dei carabinieri: «Complessivamente, nella giornata, dieci rivoltosi uccisi, feriti accertati negli ospedali: 27, un soldato ucciso da arma da fuoco, numerosi altri militari feriti non gravi. Finora circa millecinquecento operai arrestati».
Sabato 25 agosto, praticamente l’ultimo giorno della rivolta.
Non vi è quasi più una resistenza organizzata sulle barricate. Una dopo l’altra, nella notte, sono state smontate dai soldati, che pattugliano le strade più importanti.
Dal primo mattino i «ribellatori» nelle periferie, dove l’agitazione, l’ira, la passione, sono ancora vivissime, tentano qua e là assalti a pattuglie di soldati, cercano di disarmarli, sparano le ultime cartucce. A volte è una folla di donne che sbuca da una casa o da un angolo di strada e cerca di circondare la truppa e di sottrarle le armi.
Così accade in Borgo San Paolo, verso le ore 9,30 quando ha luogo l’ultimo episodio cruento della rivolta: in via Villafranca la folla si avvicina a una pattuglia di alpini, comandata da un sottotenente. I dimostranti, secondo il prefetto, sono circa 300: «tentarono di disarmare la pattuglia, che sparò, uccidendo un borghese e ferendone una decina».
Il cronista del «Grido» scrive: i poliziotti furono di una ferocia inaudita, l’ufficiale ordinò il fuoco e fu sparato a distanza di pochi passi, uccidendo quattro dimostranti e ferendone molti altri.
Nel pomeriggio del 25 agosto, ancora a San Paolo, due soldati di scorta ad un carro viveri vengono disarmati, e in Barriera di Milano, lo stesso accade a un caporale e tre soldati. Ma sono gli ultimi bagliori dell’incendio oramai soffocato dalla violenza dell’esercito e dal servilismo dei dirigenti sindacali e socialisti.
tratto e rielaborato da: “Storia di Torino operaia e socialista” di Paolo Spriano – Einaudi, Torino 1938
Incendio e saccheggio alla Chiesa San Bernardino
Via Dante di Nanni angolo Via San Bernardino
Ascolta la lettura su: Agosto 1917 incendio e saccheggio della chiesa di San Bernardino e del convento annesso, distruzione di un magazzino militare. La folla viene mossa dalle parole di Clelia e Rita Montagnana.
“O si fa sul serio o niente”. Così Clelia Montagnana, una ragazza di appena 25 anni, nell’agosto del 1917 incitava la folla ad assaltare la chiesa di San Bernardino, insieme alla sorella minore, Rita Montagnana che all’epoca aveva 22 anni. Erano i giorni della rivolta del pane a Torino: la protesta si era presto trasformata in una vera e propria sommossa ed era dilagata nei quartieri operai, dove le donne guidavano per le strade cortei di rivolta.
I motivi economici della mobilitazione si intrecciavano a doppio filo con gli obbiettivi politici, la protesta contro la mancanza del pane era protesta contro la guerra. Si capisce allora per quale motivo l’attenzione della popolazione di San Paolo si concentra sulla chiesa e sul vicino convento dei frati: i sotterranei della chiesa ospitavano infatti un magazzino militare. I frati, inoltre, si erano già inimicati la popolazione del quartiere l’anno precedente, quando avevano picchiato e sfregiato dei ragazzi che si erano introdotti nell’orto del convento per rubare della frutta, marchiandoli sulla testa con il simbolo della croce.
L’assalto caldeggiato da Clelia e Rita Montagnana riesce: Chiesa e convento vengono saccheggiati, la folla requisisce le abbondanti scorte di viveri dei frati e gli edifici vengono poi dati alle fiamme.
Nel corso della Prima guerra mondiale sono le donne, sempre più presenti nelle fabbriche e investite in famiglia di sempre maggiori responsabilità, a chiamare alla lotta gli operai maschi, sono le donne ad assumere comportamenti indisciplinati, rappresentando, insieme ai ragazzi, spesso soli, le soggette più insubordinate ed arroganti, le esecutrici materiali delle azioni più eclatanti di rivolta, le prime a partecipare a dimostrazioni piazzaiole e antipatriottiche. Sono le donne, del resto, che collegano più facilmente il movente economico del pane a quello della pace, alla necessità di far cessare immediatamente la guerra per riportare a casa i giovani che erano stati mandati a morire al fronte.
Ciononostante la polizia non riuscendo ad immaginare che quelle parole di incitamento che avevano portato al saccheggio e all’incendio della Chiesa di San Bernardino fossero state pronunciate da una donna, arresterà il fratello delle sorelle Rita e Clelia, Mario Montagnana, coprendosi addirittura di ridicolo quando, in un primo momento, annunciò di aver arrestato Rito Montagnana.
Pane! Sciopero! Abbasso la guerra!
Via Dante di Nanni (pedonale)
Ascolta la lettura su: lo sciopero del Pane del 1917 durante il quale le donne presero d’assalto e saccheggiarono i forni, non rientrando nelle fabbriche.
Noi, a Torino, la guerra non la volevamo più. Volevamo che tornassero i nostri soldati dal fronte e volevamo mangiare. In quel mese d’agosto, se in fabbrica si crepava di caldo, in casa si moriva di fame. Usciti dal lavoro si faceva la coda dal fornaio, ma il più delle volte il pane era finito. Così, sempre più sovente, si rientrava al lavoro gridando: «Sacco vuoto non sta in piedi e tanto meno può lavorare».
Cominciarono le donne che soffrivano più di qualsiasi altro per la fame e per la guerra. Quasi tutte adesso lavoravano in fabbrica: bisognava dare da mangiare ai bambini mentre i mariti e i figli grandi erano al fronte. Ma cosa dare da mangiare ai bambini se nelle botteghe non c’era pane?
Il 21 agosto 1917, un martedì, il pane mancò completamente. I lavoratori usciti dalle fabbriche incontrarono davanti alle panetterie sbarrate le donne che uscite dal turno in fabbrica, inutilmente, facevano la coda da ore. Si cominciò a gridare: «Pane! Sciopero! Abbasso la guerra!».
I fornai erano piantonati ma, in un attimo, i carabinieri furono travolti e contro le donne non osarono sparare. Porte e saracinesche furono abbattute dalle donne che presero d’assalto tutti i viveri a portata di mano. Nessuno quel giorno rientrò in fabbrica. Alcune direzioni di stabilimenti, alla Diatto e alla Proiettili (dove lavoravano solo donne) mandarono a prelevare camion di pane ai panifici militari. Ma quando i camion arrivarono, le donne li presero d’assalto, si distribuirono il pane e, invece di rientrare al lavoro, si diressero in città urlando: «Abbasso la guerra!».
Al pomeriggio tutte le fabbriche erano ferme. Gli operai sapevano cosa rischiavano: poiché erano tutti militarizzati, potevano essere immediatamente spediti al fronte, se non deferiti davanti al Tribunale Militare. Ma le donne, che sapevano tutto questo, si misero davanti a loro. Cortei tumultuanti arrivarono in centro. Le donne gridavano: «Al municipio! Dal prefetto! Nominiamo una commissione!».
Macché commissione, abbasso la guerra! Così la mossa per il pane cominciò a trasformarsi in rivolta contro la guerra. Sorsero le prime barricate. Furono rovesciati i tranvai e gli autocarri scaricati del pane e della farina. Si udirono i primi colpi di arma da fuoco. Nessuno dormì quella notte. Al mattino del mercoledì la città era paralizzata dallo sciopero generale. Tutto rimase fermo, dalle fabbriche ai laboratori e dai negozi ai trasporti.
Il fatto che lo sciopero totale continuasse e che un po’ dovunque sorgessero le barricate nonostante le cariche della cavalleria, spaventò le autorità. La reazione si scatenò: allo scopo di disperdere la folla, la forza pubblica cominciò ad arrestare per le strade uomini e donne. Gli arrestati vennero picchiati ferocemente e trascinati sui camion. Poi l’autorità decise di intervenire con la truppa: fece occupare i punti strategici più importanti e arrivarono i carri armati.
Ma, appena apparvero i soldati, questi furono accolti dalla popolazione come fratelli. Le donne si infiltrarono tra loro offrendo cibo e vino. Era proprio per loro – dicevano le donne – proprio perché i soldati non andassero a morire in guerra, che Torino era insorta. E ogni famiglia operaia abitante nelle strade presidiate dalla truppa si occupò dei “suoi” soldati. Con la pastasciutta li esortò a fraternizzare.
Questo atteggiamento non tardò a portare certi frutti. Un reparto di alpini ricevette l’ordine di sparare, ma i soldati, dopo aver lungamente esitato, di fronte alle donne, posarono i fucili a terra e voltarono le spalle alla folla.
Ciò accadde sul corso di Ponte Mosca, alla Barriera di Milano e, subito dopo, il Commissariato di polizia di quello stesso quartiere fu preso d’assalto ed espugnato dalla folla. Poi questa si diresse di corsa, attraverso Porta Palazzo, verso il centro della città per raggiungere Piazza Castello dove c’era la Prefettura, e piazza San Carlo dov’era la Questura, e a via Cernaia dov’erano le caserme principali.
Ma non fu possibile. Il contrattacco fu tremendo: contro i pochi fucili dei rivoltosi entrarono in azione le mitragliatrici e i carri armati che cominciarono a vomitare fuoco tanto su ci fuggiva quanto su chi resisteva, e contro le finestre delle case, contro i negozi, contr tutto. Caddero donne,uomini e e perfino bambini.
Ma la lotta non cessò. Continuò lo sciopero e continuavano a sorgere barricate.
Dalle memorie di Teresa Noce partigiana e combattente, all’epoca dei fatti diciassettene.
Sciopero Antifascista alla Diatto
Via Frejus, 21 (angolo via Cesana)
Ascolta la lettura su: il blocco delle fabbriche torinesi nel 1943 per una protesta che coinvolse 100.000 operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni ebbero un chiaro intento politico: la fine della guerra e il crollo del fascismo. Molti degli operai della Diatto subirono per ritorsione il licenziamento e l’arruolamento forzato nell’esercito.
«Per il pane e la libertà! Contro le 12 ore e la guerra maledetta! Esigiamo la cacciata di Mussolini dal potere! Lottiamo per la pace e l’indipendenza del nostro Paese! Per l’aumento del salario e perchè questo venga pagato! L’azione, lo sciopero, la lotta, sono le sole armi che possediamo. Sciopero, sciopero, sciopero!»
Questo è il testo di uno dei volantini con cui gli operai comunisti di Torino preparavano lo sciopero generale del Marzo del 1943.
Stremati dalla guerra, gli operai delle fabbriche torinesi sono i primi a riappropriarsi di questo strumento di lotta che per vent’anni la dittatura era riuscita a cancellare. Le prime brevi sospensioni del lavoro si hanno alle Ferriere, il 1° gennaio, alla Spa il 13 e il 14, alla Acciaierie Fiat e alla Diatto il 14, dove si fermano 3000 operaie e operai. I motivi vanno dalla protesta per l’esiguità del salario percepito, alla contestazione sul cottimo al rifiuto di fare una giornata lavorativa di 12 ore.
Durissima sarà la repressione: molti operai subiscono per ritorsione il licenziamento e l’arruolamento forzato nell’esercito.
Queste prime sospensioni del lavoro danno però il segnale che uno sciopero generale è possibile e che è possibile e doveroso collegare le istanze economiche con quelle più propriamente politiche.
Per tutto febbraio si intensifica la propaganda clandestina degli operai nei diversi stabilimenti torinesi: i manifestini vengono attaccati dappertutto, anche nei gabinetti, appiccicati anche con la saliva perché mancava la colla, sui muri delle fabbriche appaiono scritte di condanna verso il regime e incitazioni alla lotta.
Il 5 marzo del 1943 gli operai della Fiat Mirafiori danno inizio al primo sciopero generale contro il fascismo. Da quel momento la protesta dilaga e fino al 17 marzo 1943 le fabbriche torinesi sono bloccate da uno sciopero che coinvolge 100.000 operai.
L’Unità, stampata clandestinamente, il 15 marzo afferma: «Con la loro azione ferma e coraggiosa gli operai di Torino stanno dimostrando che la classe operaia, quand’è unita, può tener testa, in qualsiasi situazione, alla tracotanza dei profittatori di guerra e alla repressione fascista.»
Non è una esagerazione:
Il governo pochi giorni dopo è costretto a cedere e ad accogliere le richieste economiche dei lavoratori.
È il primo colpo mortale che il movimento operaio assesta al fascismo.
Occupazione Stabilimento SPA
Giardino SPA (via Osasco/via Braccini)
Ascolta lettura su: l’occupazione delle fabbrica SPA e la costruzione di armi a difesa della città.
S.P.A. – Società Piemontese Ansaldi Ceirano (via Braccini, via Osasco, Via Bossolasco, Corso Ferrucci) fabbrica di automezzi: Nei giorni immediatamente precedenti l’insurrezione generale gli operai e le squadre SAP interne alla fabbrica provvedono ad innalzare “opere di difesa passiva (bloccaggio delle porte secondarie, costruzione di muretti protettivi)” [R.Luraghi, 1958] in modo da preparare la difesa dello stabilimento dagli attacchi tedeschi.
Un attacco che arriva, durissimo, il 26 di aprile, quando, “dalle 17,00 alle 21,00” [G. Padovani, 1979], l’intera fabbrica è “colpita da colpi di carri armati nazifascisti”. [Verbali Cln aziendali, E/76/d (fas.8)]
Dopo un primo scontro avvenuto nel pomeriggio contro dei militi fascisti della X MAS, gli operai costruiscono tre carri armati, “uno dei quali semovente con un pezzo d’artiglieria da 75mm” [G. Padovani, 1979], terminando il lavoro verso le ore 21,00. Pochi minuti dopo le colonne fasciste e quelle tedesche forti di due carri pesanti, un’autoblinda e alcuni camion delle brigate nere, arrivano in Corso Ferrucci e in Via Monginevro, da dove sferrano un violento attacco iniziando a cannoneggiare lo stabilimento.
Le armi a disposizione dei sappisti non sono sufficienti a contrastare una tale potenza di fuoco, ma, proprio quando gli insorti stanno per cedere, un gesto decisivo quanto disperato, risolve la situazione: un operaio esce dai cancelli della SPA alla guida del carro armato semovente sul quale sono issate le insegne del Cln e subito dopo i nazifascisti fuggono in ritirata, probabilmente convinti che “molti di quei bolidi fossero pronti per entrare in azione” [G. Padovani, 1979].
In realtà non è vero, visto che i sappisti oltre a non possedere altri carri armati non possiedono le pallottole né per il cannoncino né per la mitragliatrice posti sul carro.
All’esterno dell’ingresso di corso Ferrucci 122 una piccola targa è dedicata alle maestranze che difesero gli stabilimenti nell’aprile 1945.
La lapide posta invece all’interno della fabbrica con i nomi dei caduti e deportati è stata trasferita nei locali del comune di Torino. Le lapidi della Fiat Spa, Grandi Motori, Materiale Ferroviario, Autocentro e Ricambi presentano tutte un’identica iscrizione, che precede l’elenco
dei nomi: “Lavoratori di questa sezione Fiat / caduti della liberazione nazionale / aprile 1945 / morti combattendo nella difesa degli stabilimenti / nella lotta partigiana / martiri della rappresaglia nemica / vittime dei campi di concentramento tedeschi”.
Sciopero Antifascista alla Lancia
Via Lancia angolo Via Caraglio
Ascolta la lettura su: lo sciopero antifascista alla fabbrica Lancia
Fin dall’apertura dello stabilimento Lancia tante donne e uomini di Borgo San Paolo lavorano nei vari reparti della fabbrica. Tra il 1943 e il 1945 moltissimi/e lavoratori e lavoratici partecipano a scioperi e alle azioni di resistenza contro il fascismo.
Le maestranze della Lancia non presero parte allo sciopero del 5 marzo. Ma le notizie pervenuteci dalla Fiat Mirafiori e da altre fabbriche ci misero in movimento e, se rammento bene, la prima fermata la effettuammo l’8, continuando lo sciopero per due giorni, dapprima, in alcune officine, «a singhiozzo», poi a «orario completo». La differenza fra quanto accadde alla Fiat e da noi, fu che fascisti e industriali erano ormai all’erta, non vennero colti di sorpresa e quindi trovammo più duro condurre la lotta.
A quell’epoca, ero allievo alla Scuola apprendisti Lancia, che sorgeva in corso Racconigi angolo corso Peschiera; la dirigeva l’ingegner Borello, un sincero antifascista, amico di mio padre: senonché, dall’inizio della guerra, era stato nominato direttore effettivo il vicefederale di Torino Giaj, e quindi Borello si trovava a svolgere di fatto funzioni di vicedirettore.
Giaj era da tempo operaio alla Lancia e una volta al mese teneva comizi ai giovani, oppure trascinava in fabbrica dei gerarchi che ci somministravano le loro concioni: tipi come il colonnello Botto, il federale di Torino Ferretti, il maggiore Comoglio dell’Ufficio Militare Lancia. Tutti personaggi che abbondavano in demagogia e in inviti ai più anziani fra noi ad arruolarci volontari per il fronte.
L’8 marzo, Giaj – che ogni mattina, dalle 9 alle 11, veniva in fabbrica a sorvegliarci – se ne stava proprio accanto a me, con l’ingegner Borello e l’istruttore Salussoglia osservando il mio lavoro, quando fu chiamato al telefono e informato che alcuni reparti della Chiribiri (all’angolo tra via Caraglio e via Monteneato, ora via Lancia), si erano fermati: si trattava dell’officina 13 e del reparto Esperienze. Il vicefederale impallidì e partì di carriera alla volta delle officine in sciopero. I telefoni squillavano: i gerarchi fascisti sollecitavano istruzioni, senza ottenere risposte. Giaj tenne un breve comizio all’officina Esperienze, profferendo minacce: alcuni operai furono schiaffeggiati dai suoi scagnozzi. Ma i lavoratori, calmi, le braccia incrociate, rifiutarono di riprendere il lavoro e presentarono le rivendicazioni della piattaforma di sciopero: 192 ore pagate per tutti, aumento della razione di pane e altri generi alimentari, ecc.
Le sospensioni del lavoro, man mano che la voce dello sciopero correva, si estendevano ad altre officine; ma direzione e gerarchi sguinzagliarono l’intero apparato aziendale perché bloccasse i reparti a cui le notizie non erano ancora pervenute e assicurasse la continuità del lavoro.
La sera, gli operai iscritti al partito fascista ebbero l’ordine di presentarsi in fabbrica, il giorno seguente, indossando la camicia nera. Fu un fiasco solenne. Un buon numero di costoro e degli stessi capi si unì addirittura agli scioperanti. Al secondo giorno di sciopero, noi allievi della scuola fummo rinviati a casa, con la scusa che mancava la corrente elettrica. Una scusa penosa per impedirci di partecipare alla lotta. Giaj non si fece vedere per tutto il mese. Tornò in aprile, ma aveva perso l’antica baldanza. Sulla facciata dello stabilimento, la notte precedente lo sciopero, una mano ignota aveva scritto: «Abbasso la guerra, vogliamo pace e pane».
Memorie di Romulo Siccardi, nato a Rivoli nel 1906, entrato a 14 anni nella Scuola allievi della Lancia e dal giugno 1944 combattente partigiano nella 20° brigata Garibaldi operante nelle Valli di Lanzo e in Valle di Susa.
Giaretti Eugenio detto Tarzan
Corso Racconigi, 120 bis (angolo via Monginevro)
Ascolta la lettura su: il partigiano Tarzan
Corso Racconigi angolo via Monginevro. Giaretti Eugenio detto Tarzan, partigiano combattente agì con la 4ª divisione Garibaldi nelle valli di Lanzo e tornato in Borgo san Paolo si unì alle formazioni cittadine. Il 22 gennaio 1945 fermato in via Monginevro angolo corso Racconigi da una pattuglia dei Rap nell’ambito di un massiccio rastrellamento di Borgo San Paolo protrattosi per tre giorni, fù messo al muro e colpito da una scarica di mitra. Portato prima al Mauriziano venne successivamente prelevato dai fascisti che lo lasciarono per una settimana senza cure in una stanza d’albergo dove morì il 31 gennaio.
L’aumento dello scontro militare tra i repubblichini e i compagni ormai portava la guerra nelle strade. Nei primi giorni di gennaio erano stati uccisi un sottotenente della polizia repubblicana vicino a piazza Rivoli e il capo della fanfara della Gnr in corso Dante. Dieci giorni dopo le Sap di borgo San Paolo avevano disarmato una squadra di fascisti dei Rap ferendone uno. La questura organizzò in risposta un rastrellamento per il borgo che fini con una sparatoria in cui persero la vita anche dei civili. Iniziò così una caccia all’uomo casa per casa, cortile per cortile, che durò tre giorni portando a più di cento arresti. Quella mattina c’erano venti centimetri di neve sui marciapiedi, stavo girando da una via all’altra per informare i compagni sui movimenti dei reparti quando di colpo sentii esplodere due raffiche di mitra. Corsi fino all’angolo tra corso Racconigi e via Monginevro dove un cordone di repubblichini teneva la gente a distanza mentre arrivava il tram dalla rimessa di corso Trapani. Cercai di divincolarmi ma venni presero per i vestiti e per i capelli.
«Guarda! Guarda che fine fanno i traditori».
Tarzan era della squadra di Eugenio, aveva combattuto con la Garibaldi delle valli di Lanzo e da qualche mese, sopravvissuto ai terrificanti rastrellamenti dell’autunno, era tornato in città per colpire i fascisti e i tedeschi nel loro covo più sicuro. L’avevo conosciuto appena uscito dalla Generala e mi era sembrato da subito un compagno generoso e coraggioso, timido a volte. Ora era a terra in fin di vita, ferito alle gambe e alla schiena. I militi fermarono il tram obbligando tutti a guardare, poi alcune madri riuscirono a forzare il blocco per portare dell’acqua calda che sciogliesse la neve e desse un po’ di conforto al moribondo. I fascisti le fermarono, presero le brocche e le spaccarono a terra. Tutti dovevamo vederlo soffrire, muoversi agonizzante fino alla fine. Arrivarono altre donne con altra acqua, presi una brocca e corsi verso il corpo del compagno e amico in mano agli aguzzini. Quella volta non mi fermarono, mi misi in ginocchio al suo fianco e gli pulii il volto, poi rovesciai l’acqua vicino al collo e sui fianchi. Mentre la neve si fondeva con il sangue lui, senza riuscire ad alzare la testa, mi sorrise, appena prima che i fascisti mi trascinassero oltre il cordone. Dopo più di un’ora, visto che non moriva, lo caricarono su un furgone e lo portarono via.
…
Eugenio Giaretti, nome di battaglia Tarzan, portato all’ ospedale Mauriziano per le ferite subite durante il rastrellamento in corso Racconigi venne prelevato dai fascisti e lasciato per una settimana in una Stanza d’albergo senza cure, dove si spense l’ultimo giorno di gennaio del 1945.
…
Dopo i tre giorni alla Mirafiori si facevano ronde per stanare i cecchini e catturare i pochi fascisti che non erano scappati. Uno l’avevamo beccato in corso Racconigi all’angolo con via Monginevro, dove ave vano ammazzato Tarzan. Dal secondo piano aveva sparato con il fucile con la canna per metà fuori, á saranno state cento persone per ché si era fermato un camion carico di partigiani, Poldo era uscito con un fiasco di vino e si festeggiava. Tuti in San Paolo lo conoscevano come un fascista della prima ora e una spia, per più di vent’anni aveva sfoggiato dal balcone una bandiera con il fascio tanto grande che quasi toccava quello del piano di sotto, non c’era corteo fascista a cui on partecipasse ed era il terrore delle famiglie del palazzo per il controllo e le delazioni. Con lui fascisti andavano a colpo sicuro quando arrestavano e durante le retate e gli arresti lui non si taceva vedere, mai. Salimmo le scale di corsa e lo trovammo ancora a fianco della finestra che ci guardava con il fucile in mano, non capivamo perché non lo usasse ora.
Un partigiano con i nervi più saldi dei nostri impedì che lo buttassimo giù dalla finestra. In strada venne coperto di insulti, calci e sputi dalla folla inferocita che voleva linciarlo ma i partigiani lo difesero scortandolo fino alla Lancia. Preso con l’arma ancora calda impegnarono poco a condannarlo. Con lui davanti percorremmo le strade fin sotto la finestra da cui aveva sparato.
«Leggi»
Era il cartello appena appoggiato al muro dell’incrocio.
«Leggi»
«Al martire dell’eterna libertà Giaretti Eugenio, partigiano…»
La scarica di mitra lo buttò contro il muro.
Eusebio Giambone
Via Cesana, 47
Meccanico antifascista che visse in via Cesana 47.
Aggredito per mano dei fascisti e incarcerato, migrò in Francia per le continue minacce, ma non smise mai la sua attività politica. Incarcerato nuovamente in Francia, venne trasferito al carcere le Nuove di Torino e dopo l’armistizio del 1943 riprese i contatti con il Partito Comunista che rappresentò nel Comitato Militare fino alla morte per mano dei fascisti che avvenne il 5 aprile 1944 al Martinetto. Tramite un’esecuzione collettiva quel giorno i fascisti uccisero tutti gli otto componenti del comitato militare, con Giambone caddero quel giorno Giuseppe Paolo Perotti, Giachino Erich, Montano Massimo, Biglieri Giulio, Balbis Franco, Braccini Paolo, Bevilacqua Quinto.
Evasione collettiva dal carcere Le Nuove
Via Borsellino angolo Corso Vittorio Emanuele
Assalto al carcere delle Nuove con i GAP, D’Amico, Deri, Costanzo, Pensati e Grillo, organizzatore Lanfranco Leo (dal carcere), Vassallo, Capriolo.
Liberati 87 compagni in attesa di giudizio tra cui Rita Comoglio un Bazzanini.
“Inizialmente i GAP erano denominati Gruppi di Azione Proletaria e si costituirono nell’estate del ’43, alcune settimane prima del 25 luglio (data della congiura di palazzo con la caduta del regime fascista), ad opera del compagno Mario Lizzero che dal 1934 aveva scontato tre anni e sei mesi di carcere fascista.
[…]
Questi piccoli gruppi di compagni organizzati nei GAP si resero attivi già dal 26 luglio 1943 a Torino dando l’assalto al carcere delle Nuove (Grillo autista del bus, Vassallo D’amico, Deri, Brusasco e il sottoscritto), liberando gli 87 compagni che erano in attesa di processo e tutti gli altri detenuti politici […].”
da Diario 1943 – 1945 di Pierin Cordone
Giovanni Martinetti e Giuseppe Tarella
Corso Ferrucci angolo Corso Vittorio Emanuele
Giovanni Martinetti
Nato a Pezzana in provincia di Vercelli il 3 novembre 1901, tranviere, partigiano delle Sap del 1° settore, caduto il 30 aprile 1945, nelle giornate insurrezionali.
Tarella Giuseppe
Nato a Torino il 6 luglio 1901, autista pubblico. Appartenente alle formazioni Giustizia e Libertà.
All’alba dell’11 ottobre 1944, dopo una notte laboriosissima, di ritorno da una pericolosa azione, all’angolo tra corso Vittorio Emanuele e corso Ferrucci gli venne intimato l’alt da una squadra volante di fascisti. Con grande abilità riuscì a sfuggire, ma nel tentativo di sottrarsi a una seconda squadra apparsa all’improvviso pochi metri più avanti, rimase ucciso.
Eugenio Borione
classe 1904, partigiano comunista ha vissuto in via san paolo 58. Operaio della Lancia prima e vigile del fuoco poi, appartenente alle SAP, ha dedicato tutta la sua vita alla lotta antifascista.
Padre di Silvio Borione, nasce a Torino nel 1904. Nel 1922, dopo la strage di Torino del 18 dicembre, espatria in Francia per circa 4 anni. Al suo ritorno viene inviato a combattere in Libia ma al rientro non essendo iscritto al PNF è costretto a fare lavori saltuari. Assunto alla Lancia si trasferisce nel borgo in via san paolo 58 con il figlio Silvio e la compagna Esmeralda (anche lei incarcerata più volte per la sua attività antifascista). Per l’attività di propaganda soprattutto durante gli scioperi viene licenziato nel ’43, per essere assunto successivamente nei vigili del fuoco grazie alla solidarietà dei compagni. grazie a questo ruolo continuerà a fare attività di sabotaggio e propaganda antifascista. Appartenente alle Sap, costretto spesso alla clandestinità, viene incarcerato più volte per la sua attività politica. Gli verrà riconosciuto il ruolo di partigiano combattente alla fine della guerra.
Lotte Antifasciste in fabbrica
Il 25 aprile 1945, e ancor più nei giorni immediatamente seguenti, a Torino e in borgo san Paolo si svolge la battaglia finale della lotta di liberazione.
Il 27 aprile, durante l’insurrezione cittadina, i partigiani della III brigata SAP “Giulio” salgono sui tetti della Westinghouse e, con la collaborazione delle maestranze, presidiano lo stabilimento. Poi decidono di condurre un’incursione alle Carceri Nuove per liberare i detenuti politici. Le schermaglie sulla via Pier Carlo Boggio si protraggono dalle 7:30 fino alle 17:30: dalle torrette del carcere e dai tetti della Westinghouse si scambiano fitte e incrociate gragnole di proiettili, fino alla definitiva resa del comandante del carcere, avvenuta alle ore 18. Tre giorni più tardi, la fabbrica “presidiata dalle SAP, integrate da elementi presi dalle maestranze, riprende regolarmente il lavoro”.
Da Venti di guerra in borgo san Paolo, dal ventennio alla liberazione, di Sergio Donna
a Torino la liberazione fu preceduta dallo sciopero generale e dall’occupazione delle fabbriche. Nei giorni antecedenti l’insurrezione del 25 aprile, gli operai torinesi, appoggiati da formazioni di montagna, avevano combattuto contro i tedeschi e, prima ancora che i partigiani entrassero in città, ai cancelli di molte fabbriche sventolavano le bandiere rosse. “nelle fabbriche abbandonate dai padroni che si sono date alla fuga, gli operai odminano incontrastati, e in alcuni casi fucilazioni sommarie di industriali e dirigenti sembrano segnare la fine del dominio della classe padronale.”
Da uomini e fabbriche dopo i bombardamenti, in “bollettino storico-bibliografico subalpino, di Allio, Renata.
Spazi Resistenti
Ai rifugi che nacquero dalle macerie dei pesanti bombardamenti che subì borgo San Paolo e che furono luoghi di riparo per l’organizzazione di scioperi, sabotaggi e azioni contro l’occupazione nazi-fascista.
“La terra urlava la sua collera, disperata, sconvolta, ferita. Nemmeno il fumo delle distruzioni e degli incendi serviva a scuotere l`indifferenza del cielo. Possibile che di lassú nessuno vedesse o sentisse? Si sentiva invece benissimo in una cantina di via Limone: la casa sinistrata era ancora in piedi, sotto si era scavato, tempo prima, un passaggio tra le macerie che ora serviva da rifugio. Uno dei presenti disse “salvate il vino!”. Una sequenza di scoppi e tremolii che si avvicinava ci indusse ad accostarci alle pareti, le bombe erano cadute vicino, lo spostamento d`aria spense le candele, scompiglio i fogli e notes, riempiendo di polvere il locale, l`aria si fece irrespirabile, tirammo fuori i fazzoletti, mentre qualcuno riportava un po` di luce con accendini e pile.
Mentre sopra la storia stava cancellando un tipo di civiltà, la sotto discutevano come costruirne un’altra piú pacifica. Uno dei punti chiave era il pagamento delle duecento ore, o tredicesima che si voglia dire; una delle tante promesse non mantenute dal regime, si mettevano in prima linea le rivendicazioni salariali, ciò serviva ad avvicinare la gente comune, poi subentravano le parole d’ordine di un certo spessore politico. Da quello che una volta era un garage proveniva il chiarore della brace di una sigaretta, era del compagno di guardia, un leggero sibilo mi avverti che dall`altra parte qualcuno si avvicinava. Il servizio di sicurezza funzionava, la figura umana si avvicinò con cautela, mi avevano subito individuato, mi chiese se la calce era pronta per le scritte, bisognava approfittare del tempo tra la fine dell`incursione e l’ululato del cessato allarme, in quel momento uscirono con secchi e pennelli. Bisognava velocemente iniziare le scritte, erano in quattro, e si decisero la zona in altrettante parti. Tra poco la gente sarebbe uscita dai rifugi e avrebbe sciamato per le vie, così si coglieva il momento giusto perché le scritte fossero lette.
In queste puntate cercavamo di non allontanarci mai dai gruppi di case distrutte, esse ci servivano, in caso di inseguimento da rifugio, difficilmente le squadre fasciste penetravano in questi labirinti di rovine e cunicoli.”
Così descrive Silvio Borione l’attività che la comunità antifascista di Borgo San Paolo mise in atto in quei rifugi di macerie causati dai pesanti bombardamenti che subì il quartiere. Luoghi che permisero la clandestinità ai partecipanti per scambiarsi o nascondere informazioni e materiali, che diedero un posto per dormire a chi non lo possedeva, un posto per lavorare alle tante sex worker che, in strada o nei luoghi pubblici, trovavano impossibilitato il loro lavoro dalla presenza degli eserciti occupanti. Quei muri, sventrati senza pietá, furono risignificati da chi li abitó e gli fu dato un senso che sia nell`atto individuale, ma soprattutto collettivo, resistette all`occupazione nazifascista.
Resistenza Palestinese
Alle vittime del genocidio palestinese per mano dello Stato di Israele. Al popolo palestinese costretto a vivere in apartheid dal 1948. «A qualunque latitudine, facciamo parte della stessa comunità. Ogni uomo, donna, piccolo, di questo pianeta, ovunque nasca e viva, ha diritto alla vita e alla dignità. Gli stessi diritti che rivendichiamo per noi appartengono anche a tutti gli altri e le altre, senza eccezione alcuna».
Non dimentichiamo «restiamo umani,anche quando intorno a noi l’umanità pare si perda»
Quando si parla di antifascismo si parla di resistenza e oggi la resistenza che vogliamo celebrare è quella del popolo palestinese.
L’atto di genocidio è parte di un continuum”: l’attacco del 7 ottobre, s’inserisce nel contesto di 75 anni di apartheid, 56 anni di occupazione e i 16 del blocco di Gaza che ha di fatto negato l’assistenza sanitaria ai bambini il che è non solo disumano ma rappresenta una violazione dei loro diritti.
16 anni di blocco e le ricorrenti escalation di violenza hanno fin ad oggi rappresentano una minaccia costante per la vita dei bambini e le restrizioni imposte dal blocco hanno contribuito ad aumentare il tasso di povertà e la carenza di supporti sanitari nel mercato locale.
La malnutrizione è stata per anni dominante tra le famiglie che vivono in “aree ad accesso limitato” vicine al confine israeliano e che sono testimoni di frequenti attacchi: non hanno mai avuto i servizi di base, infrastrutture pubbliche adeguate e hanno più volte dovuto affrontare malattie trasmesse dall’acqua, dall’inquinamento e dai rifiuti solidi. Il 10% delle famiglie intervistate da Save the Children ha riferito di aver perso un figlio per cause prevenibili, prima che compisse 5 anni.
Nella prima intifada (1987) ricordiamo la frase di Yitzhak Rabin, ministro della difesa per spezzare la resistenza palestinese: “ai ragazzini che tirano le pietre spezzategli gambe e braccia”
Molti ricordano non solo le immagini degli adolescenti che lanciano pietre, ma anche le immagini di quegli stessi adolescenti a cui i soldati spezzano sistematicamente braccia e a volte anche gambe. Nonostante questo, la resistenza continuò e per tutto il primo anno fu sostanzialmente nonviolenta, a parte il lancio di pietre da parte di bimbi e ragazzi. Infatti, in questo primo anno di Intifada, non ci furono morti nell’esercito israeliano, mentre 204 palestinesi furono uccisi, e di questi circa la metà erano minorenni. I video dei soldati che spezzavano le braccia a ragazzini fecero rabbrividire l’opinione pubblica.
Dal 7 ottobre nella Striscia di Gaza, Israele ha ucciso oltre 33.000 palestinesi di cui oltre il 70% donne e bambini; ha causato l’evacuazione forzata di 2 milioni di palestinesi (popolazione civile); sta costringendo alla fame e alla sete la popolazione assediata, producendo danni fisici, traumi psicologici, non ha provveduto e anzi ha deliberatamente bombardato zone sicure; ha devastato il sistema sanitario fino a distruggere 26 ospedali su 36 e decine di ambulanze uccidendo medici e infermieri, distrutto la vita comune dei palestinesi; sradicato la memoria storica e ucciso figure preminenti della società civile; non ultimo, ha compromesso la nascita stessa dei palestinesi attraverso la violenza riproduttiva inflitta alle donne palestinesi, ai neonati, agli infanti e ai bambini.
Centinaia di famiglie multigenerazionali spazzate via, ordini di evacuazione per oltre un milione di persone (compresi bambini e anziani, feriti e infermi, da effettuarsi in 24 ore senza alcuna assistenza e con bombardamenti sulle vie dichiarate sicure). Umiliazione dei prigionieri, sostanziale blocco di tutti gli aiuti umanitari e ripetuti bombardamenti dei punti di distribuzione, distruzione sistematica di case, scuole, università, moschee, chiese, infrastrutture di ogni tipo. A tutto questo si aggiunge il sadismo di soldati israeliani che postano le loro imprese sui social, indossando indumenti intimi rubati a donne palestinesi, esibendoli come trofei. Uno di essi, tenendo in mano i calzini di una bambina di Gaza, scrive:”Le mie vecchie passioni, sport e scrittura; la mia nuova passione, annusare i calzini di una bambina di cinque anni due volte al giorno per quattro mesi.”
Alcune testimonianze: “Il primo paziente che ho visto era una bambina di un anno. Senza gambe. Amputata dall’esplosione. Non sapeva ancora camminare e aveva già perso le gambe» (Paul Ley, 60 anni, ortopedico della Croce Rossa). «Dormiamo in dieci in uno sgabuzzino della mia scuola. La coda per il bagno è così lunga che regolarmente, prima del mio turno, me la faccio addosso» (Ghazal, 14 anni, sfollata a Khan Younis). «Mi metto in fila dal panettiere alle 6 del mattino. Arrivo al pane verso mezzogiorno, ma certe volte il pane è finito» (Kenan B., 10 anni).
«Quando la guerra finisce, voglio diventare poliziotto. E arrestare chi ci ha fatto questo» (Abud S., 10 anni, di Rafah). «Non abbiamo cibo e beviamo acqua non potabile. Ora veniamo qui a gridare a voi e chiedervi di proteggerci. Noi vogliamo vivere come tutti gli altri bambini» (appello ai media, letto da 14 ragazzini davanti all’ospedale Al Shifa). «Dal 7 ottobre, Gaza è il posto più pericoloso al mondo dove crescere un bambino» (rapporto Unicef).
Comunità Resistente
Alle piole e ai luoghi di incontro e socialità che in Borgo San Paolo garantirono la necessaria clandestinità all’organizzazione della lotta e alla diffusione di pratiche antifasciste.
Gli incontri, le discussioni, lo scambio di idee ma anche della difficoltà quotidiane della vita facevano maturare sentimenti di appartenenza di classe e rabbia contro l’oppressione nazifascista. Nel 1943 la chiamata alle armi per le classi 24/25 spinge molti uomini a disertare ed entrare nelle fila partigiane, a loro si uniranno anche persone più giovani proprio in virtù di questi legami di amicizia, solidarietà e di ideali. Come il gruppo di amici della cricca del moro, piola di borgo vittoria, che abbiamo incontrato a pian del lot, caduti per mano nazista il 2 aprile 1944.
In un momento storico in cui era necessario tenere viva la fiamma del dissenso ognun faceva la propria parte per garantire la clandestinità e l’incolumità a partigian, staffette, solidali che si ritrovavano per riunioni lampo o scambio materiali anche nei momenti di festa.
Certo che i fascisti sapevano farseli i nemici, e facevano di tutto per alimentare questa loro abilità. Era evidente la loro volontà di spezzare ogni più piccola fiammella di vita che aleggiava tra gli operai. Anche durante la guerra, comunque, le tampe, seppur in numero minore, furono tenute in vita, non solo per la musica lirica, ma anche come luoghi di lotta politica. Erano, in alcuni casi, coperture dell’attività antifascista, o occasioni in cui la festicciola si trasforma in riunione.
Allora anche una serata in piola poteva trasformarsi in una lezione politica.
…
Si potevano lasciare fuori dalla porta della piola la sofferenza e la miseria, ma non l’istinto della lotta per la rabbia di sentirti schiavo. Ben esposti nelle sale e nel giardino si leggevano i cartelli in cui si consigliava di non parlare di politica, c’era il fascismo che pensava per noi, quindi era inutile perdere tempo. Nonostante tutto qualche barzelletta natifascista girava sottovoce, anche tra i gestori del locale, e spesso qualche volantino di propaganda era distrattamente infilato nei cappotti o lasciato sulle sedie. I controlli della polizia fascista erano frequenti e in quesi casi mio padre si allontanava per tutto il tempo necessario, fino a che non tornava con un sorriso soddisfatto, seppi poi che si recava a casa di un compagno, in piazza marmolada dove si smistavano i volantini e i giornali degli antifascisti.
…
Come notai, dunque, con il tempo, anche una serata dedicata al divertimento diventava motivo di lavoro politico. Si cambiava spesso locale, anche per non venire trovati facilmente dalle ronde poliziesche, si andava da Masera in piazza Robilant, da Poldo in via Monginevro o al “Polo Nord”, la vecchia piola di corso lione, così chiamata forse perché si riteneva il posto più freddo del borgo.
Compagne Resistenti