Il 2 aprile 1944 i nazifascisti commisero la strage più feroce della guerra sul territorio della città di Torino: 27 persone, anche civili, vennero massacrate e gettate in una fossa comune senza nomi.
Per noi la memoria è un meccanismo sempre in azione mentre invece le istituzioni repubblicane italiane fecero una scelta molto chiara fin da subito: con l’amnistia del 1946 e la cancellazione di tutti i processi ai protagonisti delle violenze (ancora oggi nell’ordinamento della giustizia italiano il reato di tortura è inapplicabile) si scelse un pavido e funesto oblio e si evitò accuratamente un processo collettivo di rielaborazione del fascismo e della sua violenza fatta legge. A Torino per esempio sfuggirono ad ogni tipo di processo molti dei sadici aguzzini torturatori dell’UPI, la polizia politica fascista, che aveva sede in via Asti.
Oggi è proprio da quel vuoto che vediamo risorgere gli stessi fantasmi di odio e morte di cui si cibano gli autoproclamati fascisti del terzo millennio e di cui s’intride il discorso generale politico e dell’opinione pubblica mentre il governo Draghi ci stà trascinando in una nuova guerra.
Il piano per l’eccidio fu elaborato dagli ufficiali Alois Schimd e Wido Zimmer della SD (la famigerata polizia politica delle SS tedesche) nella nuova ottica di lotta alle bande promossa dal generale Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche d’occupazione in Italia, e dal generale Wolff delle SS. Essi scelsero personalmente il numero e i nomi dei condannati a morte che, la sera del 1° aprile, vennero prelevati dal carcere Le Nuove fra le centinaia di partigiani e civili catturati sia durante i rastrellamenti del mese di marzo, nelle valli di Lanzo e in val Pellice, sia dalla Sipo/SD a Torino e comuni limitrofi.
Alle prime luci dell’alba del 2 aprile 1944, i condannati furono condotti al Pian del Lot, legati per le mani a piccoli gruppi di quattro, e vengono abbattuti a colpi di mitraglia. Alla strage, appureranno i processi nel dopoguerra, partecipano militari della FLAK, la contraerea tedesca che aveva batterie sul pianoro, della Sipo e i fascisti delle brigate nere. Tra di loro vi era il sergente maggiore Hans Bode comandante del braccio tedesco delle carceri Nuove.
I corpi furono sepolti lì, senza alcun segno di riconoscimento. Le fosse, già preparate dal mattino da ignari operai forzati dell’organizzazione Todt, furono ricoperte da altri prigionieri prelevati, come i giustiziati, dal braccio tedesco E (ovvero elimination) dove erano detenuti i destinati alla fucilazione: pertanto i tedeschi erano certi che non vi sarebbero stati testimoni. Uno di loro era Oscar (Giovanni Borca) garibaldino della 105° brigata, che, qualche giorno, dopo scampò miracolosamente alla sua fucilazione avvenuta il 7 aprile del 1944 a Caluso insieme ad altri 15 partigiani. Fu proprio lui a dare le prime notizie dell’eccidio che vennero pubblicate immediatamente sul bollettino clandestino della 1° divisione d’assalto Garibaldi “Piemonte” fin dal maggio seguente.
L’intento dei nazisti era di colpire ed intimidire tutto il movimento resistenziale e la popolazione civile, per questo tra i 27 ci sono un appartenente alle SAP torinesi (Luigi Parussa), 5 partigiani della 105° brigata Garibaldi (Luciano Castagno, Andrea Piola, Walter Rossi, Ugo Amedeo Salvitto, Ernesto Speranza), 7 partigiani della 11° brigata Garibaldi (Aldo Capatti, Antonio Ferrarese, Aldo Gagnor, Sergio Maina, Bruno Negrini, Quirino Mascia e Remo Pagano), 2 della 4° brigata Garibaldi (Matteo Besso e Carlo Gianotti), 4 partigiani della 5° divisione GL (Matteo Fornero, Giuseppe Negro, Carlo Perotti e Mario Bavoso) e 4 civili (Alfredo Bruno e i fratelli Antonio, Giuseppe e Michele Cumiano). Tuttora 4 vittime restano senza un nome: uno di essi, dalla testimonianza dei sui compagni di lotta, potrebbe essere il gappista Macron di cui però non si conoscono le generalità.
La notizia della strage appare sulla Stampa del 3 aprile con una versione falsa e mistificatoria: delle persone giustiziate si fornisce solo il numero, 27, senza darne le generalità e senza indicare il luogo della fucilazione. L’accusa, per tutti, è di appartenere ad una non meglio specificata organizzazione terroristica al soldo del nemico e responsabile della morte di un caporale tedesco della FLAK avvenuta il 30 marzo al ponte Umberto I di corso Vittorio.
I tedeschi e i fascisti giustificarono quindi la strage come un atto di “punizione” per un evento che la storiografia ha ora comprovato essere avvenuto casualmente, anche se la dinamica esatta resta tutt’ora da chiarire.
Una strage con cui i tedeschi intendevano seminare terrore quindi, ma evitando accuratamente di fare emergere i nomi dei giustiziati: il colonnello delle SS Rauff (di stanza a Milano, ma giunto a Torino proprio nell’aprile del 1944) impartì tutte le direttive necessarie per gestire le relazioni con le famiglie e occultare la verità per ragioni di ordine pubblico.
Alle famiglie pertanto fu fornita la versione di comodo che i loro congiunti erano stati trasferiti in Germania per il “lavoro volontario” e per avvalorare questa tesi vennero addirittura rilasciate dal comando tedesco apposite dichiarazioni attestanti tale qualità, necessarie per ottenere un piccolo sussidio.
La “strategia della menzogna” messa in atto serviva ad eliminare i propri avversarsi senza farsene carico apertamente in modo da evitare ritorsioni da parte partigiana in un territorio cittadino come quello torinese particolarmente ostile.
Terminata la guerra Oscar ricostruì il luogo della strage e ritrovò la fossa comune in cui erano stati gettati i corpi. Si procedette così all’esumazione e al riconoscimento delle vittime: era l’11 maggio 1945 e qui accorsero familiari e parenti da tutto il Piemonte nella speranza di ritrovare notizie di congiunti scomparsi. Vi furono due giorni di pellegrinaggio costante sul luogo e alcuni ottennero finalmente una risposta, ma le operazioni procedettero in maniera spedita e con poche attenzioni, tanto che l’ultimo sopravvissuto della famiglia Cumiana riconobbe solo uno dei suoi fratelli.
Come ricordano i documenti dell’epoca tra i caduti non c’era nessun nome “illustre”, fra di essi non vi erano intellettuali, esponenti di partito o ex ufficiali dell’esercito: le vittime erano gente semplice, scelta a caso per dare alla popolazione un “monito”. E proprio grazie alla volontà popolare abbiamo conservato oggi memoria di questo eccidio. Più che frutto dell’impegno delle istituzioni, essa infatti nacque dal basso tra i parenti e gli amici delle vittime: furono proprio loro a lanciare una sottoscrizione pubblica e a donare al comune il monumento il 2 aprile 1949.
Il piccolo monumento tuttora esistente è artigianale e circondato da cipressi, non ha nulla di aulico o di altisonante perché fu frutto di quell’impegno, soprattutto della madre di Walter Rossi e del padre di Luigi Parussa.
Un’origine molto simile ha la lapide che sorge ancora oggi all’angolo tra via Gramegna e via Giacchino davanti all’ex Osteria del Moro, che ricorda i ragazzi della così detta Cricca del Moro i 5 amici (Aldo Capatti, Antonio Ferrarese, Aldo Gagnor, Sergio Maina e Bruno Negrini) tutti originari delle vie adiacenti, che scelsero di diventare partigiani per sottrarsi alla leva obbligatoria, per finire trucidati insieme al Pian del Lot. Fu appunto voluta e soprattutto pagata dai giovani della cricca del moro che raccolsero i soldi con ogni mezzo, anche organizzando serate di beneficenza nell’allora sala da ballo Lutrario di via Stradella. Questa lapide, posta già nell’autunno 1945, fu una delle prime ad apparire in città, anticipando quelle dell’amministrazione comunale.
Come in molti altri casi di eccidi e stragi commessi in Italia durante la seconda guerra mondiale nessuno fu perseguito: solamente il capitano Alois Schimd fu portato in tribunale e il 6 aprile 1950, venne condannato a 8 anni di reclusione «per ciò che concerne gli
eccidi in Pian di Lot, in Giaveno e in via Cibrario, in Torino, perché riconosciuto
«colpevole di concorso nel reato di rappresaglie continuate ordinate fuori
dei casi previsti dalla legge, reato previsto dall’articolo 176 del CPM di guerra».
In sostanza i giudici accolsero la versione ufficiale già diffusa durante la guerra di atto commesso in rappresaglia ad attacchi a soldati tedeschi.
In ogni caso Schimd venne liberato lo stesso anno perchè usufruì di uno sconto di pena di tre anni, dopodichè rientrò nella natia Austria e da lì si persero per sempre le sue tracce.