Le donne migranti e la detenzione L’otto marzo Lottiamo anche per Loro!

Oggi scioperiamo e manifestiamo anche per loro, le donne migranti e detenute.

Le loro storie rivelano il ruolo del genere e della sessualità in relazione ad altre gerarchie di potere come classe, razza, nazionalità e geopolitica, nel plasmare la loro condizione di migranti.

La scelta migratoria delle donne deriva dalla necessità o volontà di scappare da norme eteropatriarcali che limitano la loro possibilità di autodeterminarsi come individui. Molto spesso nei loro paesi d’origine vivono abusi e restrizioni quotidiane solo in quanto donne. La loro libertà è minata da prescrizioni di genere e sessuali. Quando arrivano in Italia le cose non sono come avevano immaginato. In molti casi peggiorano. La paura costante di essere denunciate o di subire violenze. Riuscire ad ottenere una posizione legittima con gli strumenti legali a disposizione è difficile se non, in taluni casi, impossibile in quanto sono accessibili a una minima parte di richiedenti, solitamente maschi eterosessuali, economicamente abbienti o di origine razziale e nazionale “privilegiata”.

La biologia e la sessualità femminile sono ancora una volta i termini che decidono l’acquisizione o meno di diritti per le donne. Se ciò è meno vero oggi per le donne bianche e occidentali è ancora clamorosamente reale per le donne nere, straniere e povere, ipersessualizzate e patologizzate. È in questo quadro che si inserisce la pratica che consente di ricevere un permesso di soggiorno per cure mediche di sei mesi alle donne in stato di gravidanza durante i quali non è possibile svolgere alcuna attività lavorativa. Il permesso può essere revocato se si decidesse di abortire, anche in caso di stupro. La funzione materna si ripropone come centrale, il solo possibile destino femminile. I lavori regolarizzati che possono svolgere sono quelli domestici o sessuali (nei locali, per strada, a casa); lavori storicamente femminili e oggi altamente razzializzati. Non avere documenti significa trovarsi alla mercé di altri, in gravi situazioni di sfruttamento lavorativo e a incorrere a veri e propri ricatti.

Per le  donne africane, soprattutto quelle provenienti dal sub-sahara, la migrazione non è una scelta. Per arrivare in Europa devono attraversare un lungo viaggio durante il quale sono esposte a violenze di qualsiasi tipo. Spesso rischiano la vita. Se non hanno abbastanza soldi per pagare i pedaggi vengono stuprate. O vengono stuprate solo perché sono donne, corpi disponibili. Le violenze sessuali non finiscono una volta giunte in Italia dove vengono costrette a prostituirsi per pagare il debito della tratta. Come se non bastasse, rischiano quotidianamente la detenzione in carcere o nel CPR, dove la violenza istituzionale e il razzismo sistemico si scagliano sui loro corpi una volta ancora. E dove rischiano di essere deportate nei paesi di origine. L’espulsione può avvenire anche per le donne con figl* minori a carico, determinando spesso l’allontanamento de* figl* dalle madri e dando vita a un sistema di adozione razzista e violento.

In carcere -un luogo pensato a misura d’uomo e regolato da dispositivi machisti e violenti- le donne sono poche, provengono dalle fasce più povere della popolazione, molte sono straniere provenienti per lo più da Nigeria e Romania, alcune sono tossicodipendenti, molte hanno subito violenze (sessuali in particolare) prima della detenzione e molte presentano disturbi mentali. In media hanno condanne inferiori a 3 anni, infatti commettono reati poco gravi e non sono considerate socialmente pericolose. Molte sono madri di figl* minorenni. La detenzione delle donne ha effetti gravi non solo per se stesse. Infatti sono loro che mantengono e reggono le reti familiari e relazionali. L’assenza delle donne rischia di far crollare la rete, di lasciare i figli e le figlie soli/e aggravando il senso di colpa nell’averl* abbandonat*. Pertanto le donne detenute si trovano in una situazione di isolamento maggiore rispetto agli uomini detenuti e vivono un forte stress dovuto alla sensazione di aver fallito come madri, mogli, compagne e figlie. La condizione delle donne migranti, come degli uomini, è aggravata dalla lontananza dai propri cari e da un isolamento anche linguistico, culturale e religioso.

Le donne nei Cpr sono ancor meno e sono detenute nell’unico Cpr femminile in Italia; quello di Ponte Galeria a Roma. Ciò comporta che le donne che non vivono a Roma siano allontanate dalle proprie città, dai propri legami. La capienza di Ponte Galeria è di 60 unità e la presenza effettiva oscilla da più di 40 (gennaio 2020) a meno di 10 (agosto 2020). Queste donne sono per lo più africane vittime di tratta, donne rom apolidi, donne dell’est europa e donne cinesi senza documenti che svolgono lavori domestici e di cura (colf, badanti, babysitter).

Per molte donne recluse nel Cpr la sfida più grande sta nel cercare di dare significato all’esperienza detentiva in particolare laddove non sono stati commessi reati.

Lo stress, l’incertezza, il tempo vuoto dell’attesa, la burocrazia macchinosa sono dimensioni costitutive della carcerazione. Ciò nonostante le donne resistono. Denunciano l’ingiustizia del sistema di detenzione e reclamano i propri diritti. La sorellanza che si crea tra le detenute si configura come un forte antidoto alla sofferenza della reclusione e si scontra con quella retorica tutta machista che ci vuole in costante competizione tra di noi.

Il razzismo sistemico che coinvolge le detenute in carcere e nel Cpr di Roma rende conto del clima securitario che il populismo penale ha creato, puntando il dito sulle persone migranti quali capri espiatori e affibbiando loro lo stigma di criminale da punire anche laddove non c’è reato. L’inasprimento delle pene, l’approccio alla criminalizzazione delle fasce deboli e vulnerabili, rende conto di quanto siamo lontani in Italia a pensare alla chiusura di questi spazi punitivi quale soluzione e prospettiva sul lungo termine. Abolire il carcere e la detenzione amministrativa delle donne può configurarsi come un primo passo, in quanto largamente praticabile, per un’abolizione totale che riguardi anche la popolazione maschile.

Oggi siamo qui per dire BASTA allo sfruttamento lavorativo, BASTA alla schiavitù sessuale, BASTA allo stupro come strumento politico e di controllo sui corpi delle donne e BASTA alla detenzione negli istituti di pena e alla detenzione amministrativa, punitiva e razzista.

Diciamo BASTA al sessismo patriarcale e al razzismo strutturale che insieme colpiscono i corpi delle donne migranti, relegate in una situazione di vulnerabilità e invisibilità sociale, sotto gli occhi indifferenti delle istituzioni.

L’OTTO MARZO lottiamo anche per loro, pensandole soggetti attivi e politici, con una voce udibile e un corpo visibile. Donne che resistono, donne che combattono, donne che non sono altro da noi, donne che siamo noi.

Insieme costruiamo una sorellanza plurale e intersezionale che ci permetta di riconoscere le nostre diversità facendole diventare una forza collettiva, una minaccia per chi prova a schiacciarci, a ucciderci, a violentarci, a umiliarci quotidianamente.

Insieme sovvertiamo il patriarcato CHE NON CI RENDE VITTIME, MA SOLO PIÚ DECISE E DETERMINATE!

 

Collettivo Mai più CPR, Mai più Lager