CHE

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Il rivoluzionario Guevara senza romanticismi.
Soderbergh rinuncia all’epica hollywoodiana – tratto da "Corriere della sera"

Ernesto 'Che' Guevara, 1928-1967
Ernesto "Che" Guevara, 1928-1967

Si può raccontare la vita di Ernesto Guevara senza fare i conti con
il mito del «Che»? La sfida sembrerebbe impossibile: anche un film come
I diari della motocicletta, che ne raccontava la giovinezza
argentina, non riusciva a tenere a freno la contagiosa esuberanza del
protagonista. Affrontando invece i due momenti cruciali della vita di
Guevara, la rivoluzione cubana prima e la guerriglia in Bolivia poi in
un mega-film di oltre quattro ore che esce in due parti (adesso Che-L’argentino e a maggio Che-Guerriglia),
il regista Steven Soderbergh sembra essersi fatto guidare soprattutto
dalla voglia di raffreddare la materia e di affrontare con gli
strumenti della ragione quello che di solito si racconta con
l’entusiasmo del militante.

Caldeggiato fortemente dall’attore Benicio Del Toro (che si cala nei
panni di Guevara con sorprendente rassomiglianza) e dalla produttrice
Laura Bickford, il progetto del film ha cominciato a prendere forma più
di dieci anni fa, nel 1996, ma è diventato qualche cosa di concreto
solo nel 2005, dopo che la sceneggiatura è stata affidata a Peter
Buchman. È dal suo lavoro e da quello di Soderbergh che nasce l’idea di
privilegiare due soli momenti di tutta la lunga e avventurosa vita del
«Che» giocando continuamente al contrappunto: Cuba contro Bolivia ma
anche, all’interno della prima parte, teoria contro azione, utopia
contro (dura) realtà, rivoluzione contro (o a fianco di) politica.

Questa operazione non è evidentemente senza conseguenze: da una
parte permette al film di avere un andamento il meno hollywoodiano
possibile, lontanissimo dall’epicità finto-romantica con cui il cinema
americano ha spesso raccontato rivoluzioni e rivoluzionari (basterebbe
pensare all’orrendo Che! di Fleischer con Omar Sharif nei panni
di Guevara). E dall’altra offre al film la possibilità di «distaccarsi»
dalla materia raccontata per trasformare la storia in strumento di
(auto)riflessione, recuperando certi insegnamenti godardiani
sull’intreccio tra finzione cinematografica e inchiesta giornalistica
(non a caso Questa è la mia vita era uno dei modelli a cui Soderbergh si è ispirato).

Benicio Del Toro, classe 1967
Benicio Del Toro, classe 1967

Ecco perché Che-L’argentino gioca molto col montaggio,
perdendo di vista lo svolgimento cronologico delle azioni e invece
giustapponendo momenti della visita del «Che» alle Nazioni Unite nel
1964 a episodi della guerriglia sulla Sierra Maestra cubana del 1957/58
a momenti addirittura precedenti, come l’incontro tra Guevara e Fidel
Castro in Messico nel 1955. In questo modo frasi e dichiarazioni più
«programmatiche» (come erano le risposte ai giornalisti americani o i
punti salienti del suo discorso all’Onu contro l’imperialismo e la
sudditanza degli Stati sudamericani) trovano un riscontro immediato con
le scelte concrete fatte durante la guerra rivoluzionaria, anche loro
mostrate non per la loro forza epica ma piuttosto per quello che
possono «insegnare» e «dimostrare».

Così fa una certa impressione sentir dire a una giornalista
newyorkese che la prima qualità di un rivoluzionario è «l’amore» e
subito dopo vedere la decisione di abbandonare un compagno alle sevizie
dei soldati di Batista pur di non farsi scoprire, scelta che si spiega
solo capendo che quell’«amore» non va inteso in senso cristiano ma
rivoluzionario, perché il sacrificio di un militante giustifica la
possibilità della sopravvivenza del gruppo. O ancora, prima
dell’attacco alla caserma di El Ulvero, il discorso sulla inevitabile
vittoria dei rivoluzionari di fronte ai mercenari che sembra essere
contraddetto dai morti che i ribelli lasciano sul campo ma che finisce
per essere avvalorato dalla conquista della postazione. Ogni scena,
cioè, prende valore per quello che spiega e insegna sul percorso
rivoluzionario e non per la forza emotiva che può avere.

 
 

È per questo che il film andrebbe visto nella sua interezza di
quattro ore, perché la seconda parte funziona da contrappunto alla
prima e molte scene della prima rimandano alla seconda o trovano lì la
loro «conclusione» (come il discorso sui sedicenne che a Cuba non
possono partecipare alla rivoluzione e in Bolivia sì, salvo poi
scoprire che i primi si riveleranno dei veri rivoluzionari e i secondi
tradiranno). Ma la distribuzione ha leggi che a volte vanno contro a
quelle dei film e in questo modo Che-L’argentino finisce per pagare delle colpe che non sono del tutto sue.
Nella
sua unità/complessità sarebbe stato più chiaro il percorso di
Soderbergh. Così invece si rischia di accentuare troppo una scelta di
stile che sembra solo «contro» (contro il mito del «Che» ma anche
contro l’epicità troppo programmatica di certo cinema hollywoodiano) e
meno «a favore» (di un soggetto indubbiamente originale e lontano dalle
mode).


Paolo Mereghetti