Con l’avanzare dell’autunno, le condizioni di vita nei container e nelle tende, dove vengono alloggiati braccianti e disoccupati alla ricerca di lavoro nelle campagne, diventano ancora più insopportabili. Freddo, pioggia, umidità da gelare le ossa. Difficile adesso sostenere che i campi della Coldiretti e del terzo settore rappresentino una “accoglienza dignitosa”, come qualcuno ha dichiarato ad inizio stagione; difficile fare e farsi pubblicità, perchè se irecinti si possono camuffare, nessuna fotografia riuscirebbe a nascondere le prime nebbie, l’acqua ed il gelo che attraversano i teli e i box di lamiera. Nei campi, come ripetiamo da mesi, si alimenta la ghettizzazione e si attenta alla salute di lavoratori e disoccupati, migranti e rifugiati.
La precarietà abitativa di braccianti e disoccupati, alle aziende ed ai loro rappresentanti ovviamente non interessa, anzi hanno trovato il modo di vendere i loro container come “Campus”, richiamando l’immaginario delle università americane che in comune con i campi del saluzzese hanno solo l’isolamento dai centri urbani. Dei lavoratori parlano al massimo quando devono proporre l’utilizzo del salario di crisi, provando ad usare la congiuntura economica come pretesto per erodere ulteriormente i nostri miseri compensi e diritti.
Tanto meno interessa alle istituzioni che, come ogni anno, in questo periodo iniziano a preoccuparsi della chiusura di campi e tendopoli, non certo per offrire un’alternativa, ma per sfollare ed allontanare l’unica cosa che considerano come un problema: non lo sfruttamento lavorativo, non il lavoro grigio, il lavoro nero, la precarietà abitativa, la violenza strutturale di cui sono oggetto le persone in base a classe, genere, colore e status giuridico che gli vengono assegnati. No, il problema per loro è la presenza dei lavoratori e dei disoccupati, i quali, se vengono appena tollerati quando sono utili per l’economia locale, vengono scacciati quando diventano scomoda prova delle responsabilità di chi non ha fatto nulla per migliorare realmente le loro condizioni di vita, per il quinto anno consecutivo. Condizioni in grado di minare la salute fisica e psicologica di chiunque, come hanno testimoniato i medici che ci hanno visitato in questi mesi.
A Savigliano, durante un incontro-farsa molto offensivo, ai lavoratori “campeggiati” da oltre tre mesi in tende, con una doccia all’aperto auto-costruita – in condizioni definite per stessa ammissione del Sindaco pericolosissime(l’area è un cantiere isolato, sulle rive di un fiume ad alto rischio esondazione) ed invivibili (“sul nostro territorio nelle tende non si può vivere” cit.) – il Comune ha semplicemente intimato un ultimatum: entro il 15 ottobre vi sgombereremo.
A Saluzzo, già si discute della data di prossima chiusura del campo, forse il Comune sgombererà il Foro Boario ad inizio novembre, forse prima se il tempo peggiora. La decisione, in ogni caso, come sempre, cadrà dall’alto e non si terranno in considerazione i legittimi bisogni di persone costrette a vivere in condizioni in cui nessun Sindaco o Assessore dal decisionismo facile si sono mai trovati.
Poco importa che la raccolta dei kiwi vada avanti per tutto novembre, per qualcuno di noi unica speranza di salario in una stagione segnata dalla crisi delle pesche. Poco importa che molti di noi non abbiano prospettive né lavorative, né abitative, nemmeno dopo la stagione. Molti di noi non hanno una casa, né tanto meno una residenza, che dà accesso a servizi fondamentali dai quali noi siamo esclusi, primo fra tutti l’assistenza sanitaria. Molti (chi ha un contratto di lavoro, perchè chi è costretto alla disoccupazione o al lavoro irregolare è anche condannato alla clandestinità dalla legge Bossi-Fini) sono tenuti in sospeso per la logorante attesa di rinnovo del permesso di soggiorno, la cui gestione in Italia è discrezionale e politica e per alcuni dipende dalla questura di Cuneo. Molti di noi sono rifugiati che sono stati prima schedati e poi buttati in mezzo alla strada proprio dallo stato italiano: non essendoci riconosciuta la libertà di movimento in Europa, siamo bloccati qui, facilmente sfruttabili e costretti a vivere in condizioni inaccettabili.
Poco importa, perchè per qualcuno l’unica preoccupazione è che ce ne andiamo da Saluzzo e da Savigliano, per noi su questo territorio non c’è posto, questo il mantra che ogni anno viene ripetuto. Atteggiamento così miope da contraddire platealmente persino le regole di quello “stato di diritto” a cui i politicanti legalitari e democratici dicono di richiamarsi, dal momento che a tutti i titolari di protezione, rifugiati, richiedenti asilo, così come ai titolari di permesso per lavoro, è formalmente riconosciuto il diritto di soggiornare ovunque sul territorio italiano.
Di fronte a politiche di “ospitalità” inadeguate ed insufficienti da parte delle aziende agricole, di fronte a politiche istituzionali sempre e solo emergenziali – che incentivano la proliferazione di campi e tendopoli dove si producono nuove frontiere e dove le condizioni di vita sono insopportabili – noi ribadiamo che chi vuole restare fino alla fine della stagione deve poterlo fare, sia i lavoratori che i disoccupati che hanno la speranza di qualche giorno di ingaggio per la raccolta dei kiwi. Ribadiamo, inoltre, che anche chi vuole fermarsi oltre la stagione deve poterlo fare, invece di essere costretto ad un nomadismo forzato e perpetuo, nella totale assenza di prospettive e stabilità, come più volte abbiamo ripetuto.
Non possiamo stare a guardare mentre, da un lato, si spendono soldi e una buona dose di retorica in ipocrite commemorazioni del genocidio in atto nel Mediterraneo e, dall’altro, a nessuno importa che chi è vivo ed è qui sia costretto a vivere in ghetti e poi sgomberato quando non serve più. Usciamo dai campi, ma non per andarcene; usciamo dai campi per trovare alternative abitative decenti e stabili che, lo sappiamo, esistono. Ne concessioni, né carità: casa per tutti e tutte!
3 ottobre 2014
Coordinamento Bracciantile Saluzzese
coobra.noblogs.org
Con la solidarietà di medici ed infermieri/e della MICROCLINICA FATIH
Ambulatorio Popolare Autogestito di Torino *
* La Microclinica Fatih, ambulatorio popolare autogestito, è ospitata a Torino, nel quartiere San Paolo, in via Millio 42 , dal Centro Sociale Occupato e Autogestito GABRIO. La Microclinica nasce nel 2009 dall’impegno di medici, infermieri ed educatori, con l’obiettivo di lottare per il riconoscimento del diritto di tutti alle cure sanitarie.
Il termine Microclinica nasce dalla resistenza zapatista: trattasi di un piccolo ambulatorio di prima accoglienza dove si danno informazioni e si curano tutti, zapatisti e non. Un’esperienza nata dal basso che continua tutt’oggi a portare salute nelle comunità in lotta del Chiapas.
Fatih era un ragazzo magrebino di 38 anni, recluso nell’allora CPT, oggi CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione), di corso Brunelleschi, che muore dopo aver richiesto invano di essere curato. A lui e a tutti i Fatih abbiamo dedicato questo ambulatorio.
Vogliamo chiarire fin da subito che il nostro impegno non ha nulla a che vedere con la carità, né vuole limitarsi all’assistenza, ma vuole essere un contributo reale ad una lotta politica ben più ampia e collettiva che riguarda tutti, in un momento storico in cui per le persone con difficoltà individuali e sociali persino il diritto alla salute non è garantito. Questo perché negli ultimi 20 anni c’è stata la volontà, da parte delle istituzioni, di andare verso la privatizzazione, con un conseguente aumento dei costi, un peggioramento delle condizioni lavorative del personale sanitario ed un impoverimento della qualità delle prestazioni offerte.
In questi anni si sono rivolti all’ambulatorio numerosi stranieri, disoccupati, sfrattati, donne in difficoltà con bimbi, persone del tutto abbandonate dalle istituzioni, che ormai sono completamente incapaci di offrire soluzioni adeguate a tutti i loro bisogni. Nonostante gli attacchi provenienti da diverse parti, noi continueremo a lottare, come abbiamo fatto in tutti questi anni, affinché la Salute sia un diritto per tutti e non diventi, anch’essa, un diritto negato.