In
seguito alla disposizione emanata dal Servizio Adulti in Difficoltà,
riguardante le nuove modalità di accesso alle Case di Ospitalità
Notturna riservate ai cittadini comunitari, si è generato un acceso
dibattito all’interno delle equipe che vi lavorano, ambito allargato ad
altri lavoratori del sociale nonchè semplici cittadini.
Come operatori, i punti critici che si evidenziano sono molteplici e di
differente natura. Non privi certamente di proposte atte ad
oltrepassare l’attuale situazione che, peraltro, genera smarrimento
tanto negli addetti ai lavori quanto e soprattutto nelle persone
interessate dalle direttive espresse nella circolare.
In primo luogo, si vuole evidenziare un problema di carattere
etico che prepotentemente si pone all’attenzione degli operatori,
ricordando che non si può far riferimento ad un mandato istituzionale
se questo entra in netto contrasto con i principi del proprio lavoro.
Lasciare che a guidare il proprio incarico siano dei principi cardine
ineludibili e nei quali ci si riconosce, diventa l’unico modo possibile
perché il processo in atto generi dinamiche tese alla ricerca di nuove
soluzioni e risorse da impiegare. Diversamente, si rischia di ledere la
dignità del lavoratore spingendolo alla mera esecuzione di mansioni e
relegandolo ad un ruolo in cui non si riconosce.
Il lavoro
sociale, specialmente in bassa soglia, è per sua stessa natura, votato
alla realizzazione di una piena inclusione degli individui attraverso
l’utilizzo delle risorse a disposizione, nonché all’individuazione
tanto di differenti logiche di impiego quanto di nuove risorse, qualora
quelle esistenti non siano in grado di soddisfarne la richiesta.
La logica che sottende all’emanazione della disposizione, al
contrario, mina i concetti inclusivi di cui si è promotori affermando
che l’ottenimento di nuovi posti letto per gli individui più deboli
debba realizzarsi mediante la riduzione del periodo di ospitalit nei
confronti dei cittadini comunitari non portatori di particolari
problemi.
determinare, poiché se da un lato gli operatori già tutelano persone
portatrici di maggiori difficoltà con il ricorso ai posti di emergenza,
dall’altro la disponibilità di questi stessi posti diminuirebbe se i
cittadini comunitari individuati come portatori di altrettante
difficoltà potrebbero trovare accoglienza facendo ricorso solo ad essi.
Inoltre, non appare illecito che soggetti i quali
utilizzano le strutture per tentare di raggiungere obiettivi personali,
peraltro comuni a quasi tutti gli esseri umani e cioè progetti
familiari e/o lavorativi, trovandosi senza una dimora e la
disponibilità economica sufficiente a garantirla, si rivolgano alle
C.O.N. Si vuole credere che debba essere supportato non solo chi si trova
in condizioni di estrema marginalità, ma anche chi è in possesso di un
adeguato potenziale personale, pur se momentaneamente non in condizione
di garantirsi l’accesso ad una casa e ad un lavoro stabile. I cittadini
comunitari che si rivolgono alle C.O.N. sono molto spesso lavoratori
non in regola o con contratti precari cui è precluso, da premesse che
non dipendono da una propria libera scelta, l’accesso a condizioni di
vita migliori.
Il livello di assistenza assicurato dalle strutture notturne appare già
minimo, al di sotto del quale non risulta possibile concepire
un’esistenza cui uno stato di diritto dovrebbe poter garantire e che
non si avvicina ancora a concetti di esistenza degna.
Posto che la bassa soglia si fa carico anche della limitazione dei
costi sociali, negando l’accesso ad una parte della popolazione
homeless, non ne ridurrebbe né l’entità né gli effetti.
Dicendo tutto questo bisogna riconoscere che i dormitori non
sono certo la risposta adeguata ai flussi migratori, altresì è
importante sottolineare che solo una parte, quella più esposta alla
marginalità, finisce per essere intercettatta dalle C.O.N. Ovviamente
le risorse disponibili risultano ulteriormente ridotte se si garantisce
un accesso allargato, proprio per questo perseguire politiche di
accrescimento delle stesse appare ancor più doveroso. L’esempio del
comparto sanitario riflette una logica che andrebbe la pena di
considerare.
Come da normativa infatti uno stato membro dovrebbe essere
esente dall’erogare una serie di prestazioni sanitarie, ma
contrariamente alle disposizioni contenute nella direttiva europea
2004/38/CE alcune regioni, tra cui il Piemonte, si sono dotate di un
adeguato strumento di inclusione ricercando altrove nuove risorse.
Attraverso l’introduzione
del codice E.N.I. (ex S.T.P.) attribuito dagli I.S.I., si è voluta una
procedura tale da poter eseguire una fatturazione parallela degli oneri
delle prestazioni erogate, in modo da attivare procedure di rimborso
secondo i classici canali diplomatici o stipulando accordi in sede
comunitaria. Escludere servizi essenziali, come quello costituito dalle
C.O.N. e garantirne altri di natura sanitaria, è un paradosso, proprio
perché intimamente connesse risultano essere la garanzia della salute
con delle condizioni minime di assistenza, quali un posto caldo in cui
poter dormire e poter far fronte alle esigenze d’igiene personale.
D’altro canto, le misure emergenziali attuate durante il periodo
invernale, non sono completamente sufficienti.
Invece garantendo un reale rimborso delle prestazioni erogate si
renderebbero disponibili nuove risorse e si potrebbe pensare di
reinvestirle o ridurre la spesa in bilancio; soluzione non
raggiungibile, come si potrebbe credere, attuando una politica di non
accoglienza. Infatti a meno che non si vogliano mutare le norme sui
capitolati di appalto, le cooperative assegnatarie percepiscono dal
committente una retta fissa indipendente dal numero di persone cui
garantiscono un servizio.
Altro elemento di critica concernente la disposizione del S.A.D. è
riferito al periodo di ospitalità di soli tre mesi. Esso appare
insufficiente per chi risiede in uno stato e dispone di una rete
sociale costituitasi nel tempo, quindi è assolutamente inadeguato per
un migrante che si trova di fatto ad affrontare molti più ostacoli e
dispone di una rete più limitata.
A questo si aggiunge il carattere una tantum della misura di sostegno.
Se riferita alla normativa tale logica non rispecchia alcuna
motivazione di diritto, perché non tiene conto di eventuali rientri
dagli stati di appartenenza, che in base al D.Lgs. n. 30 del 6 febbraio
2007 (attuazione della direttiva 2004/38/CE) ricostituiscono il diritto
al soggiorno per altrettanti mesi.
Giustamente, va osservato come la disposizione è nella fattispecie in
deroga rispetto alla normativa vigente in quanto non vi è l’obbligo da
parte dello stato membro ospitante di garantire alcuna misura in
materia di assistenza sociale, segno questo di evidenti considerazioni
di carattere inclusivo da parte del S.A.D., ma che risultano limitate
ed inefficaci in rapporto al periodo di tempo concesso e in assenza di
specifici interventi aggiuntivi di accompagnamento
Nemmeno si può credere nella possibilità di concedere ospitalità
solamente a chi è assolutamente regolare, perché tale condizione non è
di facile individuazione nei paesi soggetti al trattato di Schengen.
Inoltre, non si ritiene essere una prerogativa né tanto meno una
possibilità facilmente realizzabile che siano gli operatori a dover
certificare il possesso dei requisiti di lungo soggiornante. A tale
proposito si ritiene utile specificare che gli elementi di controllo
connessi con il lavoro sociale, non riguardano un elemento disgiunto
dalle logiche di inclusione perché risultano essere al servizio di
esse. Costruire barriere interne alla società inserendo principi di
“legalità all’assistenza” si traduce in un uso paradossale di un
servizio che fa dell’inclusione il proprio strumento e dell’inserimento
il proprio fine, prestandosi a pericolose interpretazioni.
Non è possibile non notare la forte similitudine di questo
atteggiamento con quello espresso da alcuni ospiti italiani delle
C.O.N. che rivendicano determinate risorse come proprie ed esclusive,
ritenendo gli stranieri degli usurpatori ed operando di fatto un
processo di discriminazione sulla base della differente area di
provenienza.
Simili logiche sono cariche di pericolosi significati, hanno nomi
propri ed univoci; in un determinato contesto vengono prontamente
svuotate di ogni supposta validità dagli operatori in servizio che
capiscono, pur non approvando, essere frutto soprattutto della
limitatezza delle risorse.
Purtroppo le disposizioni sulle norme di accesso dei cittadini
comunitari rischiano di rafforzarle, costituiscono un limite ed un
rischio per chi vede il proprio lavoro come una possibilità per
trasmettere dei valori che stanno alla base di una società civile.
Sulla base delle affermazioni del rappresentante del S.A.D. espresse
durante la III Convention Nazionale delle unità di strada e di bassa
soglia circa il carattere sperimentale della disposizione, si vorrebbe
aprire un confronto dialettico con le istituzioni.
Riteniamo urgente un momento di condivisione e confronto tra operatori
al fine di individuare i destinatari cui poter inoltrare critiche e
proposte al fine di ottenere che venga vagliata la possibilità di una
soluzione più adeguata.