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Ormai da alcuni mesi assistiamo ad un uso inflazionato della parola crisi. Si tratta di una crisi nuova rispetto alle precedenti. Il fatto che la crisi abbia una profondità e un’intensità tali da investire il sistema economico nel suo insieme è ormai ampiamente riconosciuto. Chi si era illuso che la crisi potesse essere circoscritta ai mercati finanziari ha dovuto ricredersi. La distinzione tra finanza ed “economia reale” è ormai insostenibile, considerato che i processi di finanziarizzazione sono assolutamente pervasivi nel capitalismo contemporaneo, ridisegnano completamente i rapporti tra profitti, rendita e salari, esercitano il comando sull’economia nel suo complesso. Il che significa lo esercitano sulla vita delle donne e degli uomini che abitano il pianeta. E questa crisi investe direttamente la vita di centinaia di milioni di uomini e donne, attraverso le sue ricadute su bisogni essenziali come ad esempio quello della casa o, ancora più drammaticamente, attraverso le sue ripercussioni sui prezzi degli alimenti. Una delle radici del neo-liberismo, e cioè il massiccio dirottamento del risparmio collettivo mondiale sui mercati borsistici costruito per aprire nuove frontiere al profitto delle imprese, ha avuto come contropartita un altrettanto massiccio processo di privatizzazione del welfare e del debito pubblico. L’esempio ormai notissimo dei mutui subprime negli USA dimostra come lo sviluppo abnorme del credito al consumo ha funzionato come leva per stimolare la domanda e la crescita in una situazione caratterizzata da una stretta sui salari e dallo smantellamento del Welfare, ma ha prodotto come risultati una brusca conversione dei diritti sociali in crediti, un’amplificazione a dismisura del ricatto che il debito istituisce sulla vita, una restaurazione di una forma perversa di individualismo patrimoniale, uno spostamento della gestione del rischio dalle strutture sociali dello Stato al singolo individuo.
E gli effetti della crisi globale si sono ormai palesi sui nostri territori: non facciamo qui un elenco delle realtà lavorative (fabbriche ma non solo) che nell’ultimo periodo “sono entrate in crisi” -anche perchè rischieremmo purtroppo di dimenticarne qualcuna- ci basta un dato che è quello dell’aumento della CIG in Piemonte nel corso dell’ultimo anno: 581%! (fonte Il Sole24Ore 05/02/09).
Ma se gli effetti della crisi sono dappertutto, ovunque si moltiplicano e crescono le resistenze: se durante l’autunno il movimento studentesco ha riempito le piazze declinando con forza il rifiuto a dover pagare le “conseguenze” della crisi sulle proprie scuole ed università (ma anche sulle proprie vite), nelle ultime settimane abbiamo assistito a episodi di rinnovata conflittualità da parte di gruppi significativi di lavoratori e lavoratrici impegnat* a difendere il proprio posto di lavoro oltre che da tagli e ristrutturazioni anche da capitalisti furbi ed arroganti che utilizzano strumentalmente la fase economica per continuare con le politiche della delocalizzazione produttiva.
C’è però un’altra figura che riteniamo paradigmatica all’interno della crisi: quella dei migranti e delle migranti. La crisi ha sempre teso ad avere un impatto negativo su* migranti: dal 1929 con il rimpatrio forzato di moltissimi messicani dagli Stati Uniti, passando per gli anni 70 e arrivando fino ad oggi dove i primi effetti di questa tendenza si sono già dimostrati con forza nella Spagna che nell’ultimo anno ha incrementato le espulsioni, usandole come dispositivo di regolazione nei confronti del mercato edilizio in forte contrazione dopo aver conosciuto un recente boom che aveva assorbito massicce quote di lavoro migrante. Da noi la riscrittura delle norme e dei dispositivi di controllo che si da all’interno della crisi dimostra tutta la sua violenza e il suo fondamentalismo razzista all’interno del pacchetto sicurezza. Tra gli attori della politica istituzionale che su questo terreno stanno giocando un ruolo chiave c’è sicuramente sopra tutti la Lega Nord. Dentro la crisi il “partito legato al territorio” si è affievolito e se il federalismo è solo uno slogan circondato dalle promesse della campagna elettorale che non possono essere mantenute, è sulla pelle dei migranti e delle migranti che la Lega ha deciso di giocare la sua partita per mantenere i consensi. E così le politiche securitarie diventano il terreno su cui provare a generare nuove divisioni e nuove guerre tra poveri.
L’insieme delle misure approvate dal Senato ed oggi al vaglio della Camera, punta a rendere ancora più marcata la condizione di violenta subordinazione dei migranti all’interno dello spazio della cittadinanza e del mercato del lavoro. Alcune misure come quella che riguarda la possibilità di denuncia per i medici e quella che legalizza le ronde razziste rientrano in una stretta repressiva verso quanti non hanno il permesso di soggiorno puntando ancora una volta ad isolare e negare di ritti; altre norme, come quella che pare produrrà il cosiddetto “permesso di soggiorno a punti” esprime nel modo più preciso la filosofia d’insieme del provvedimento: stabilisce il principio per cui il migrante è un soggetto sotto speciale osservazione, la cui stessa possibilità di rimanere sul suolo italiano dipende da un insieme di condizioni (di comportamenti, di “abilità”, di prestazioni economico-sociali) da confermare quotidianamente.
Sono tutte misure che si inseriscono in un percorso di lungo periodo, in una continuità che i governi di centro-sinistra si sono ben guardati dall’interrompere, ma determinano anche un salto di qualità nell’irrigidimento del quadro normativo, a cui corrisponde un innalzamento del grado di ricattabilità della forza lavoro migrante. Il nesso tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro mostra ancora una volta, svelato dalla crisi, di essere un dispositivo costruito per disciplinare la mobilità de* migranti, introducendo al tempo stesso una spaccatura e una divisione all’interno della composizione del lavoro. Lottare ancora contro questa connessione per romperla, significa assicurare il diritto di permanenza in Italia per quei lavoratori e quelle lavoratrici migranti che perderanno il lavoro nei prossimi mesi, è la condizione fondamentale perché i migranti possano essere parte dei grandi movimenti che già oggi, dentro e contro la crisi, si battono per la conquista di reddito, di nuova libertà e di nuova uguaglianza.