Speciale 25 Aprile 2015 – Per una memoria viva: la resistenza nel suo contesto storico

70 anni. Tanto è passato da quel 25 aprile del 1945 che ha segnato così profondamente la nostra storia. Una data che fu il culmine di un anno e mezzo di guerra di città e di montagna e che, soprattutto, avrebbe dovuto porre la parola fine al regime fascista con i suoi ultimi retaggi, che da venti anni ormai opprimeva l’Italia portandola sull’orlo del collasso.
Vale la pena ricordare che la dittatura fascista non fu “all’acqua di rose” come in questi anni una certa letteratura ha provato a raccontarci. Fu un regime duro, che abolì tutte le libertà individuali, di stampa e di aggregazione. Che emanò leggi eccezionali per sopprimere il dissenso. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato dal 1926 fece condannare migliaia di oppositori mentre moltissimi furono coloro che presero la via dell’esilio.

Nella foto: si spara dagli uffici della Lancia
Nella foto: si spara dagli uffici della Lancia

Il fascismo aveva nella sua anima la guerra e fu coerentemente guerrafondaio. Invase nel 1935 l’Abissinia (Etiopia) con azioni basate sul massacro sistematico e sullo sterminio dell’avversario. Si utilizzarono su larga scala armi chimiche (già allora vietate dalle convenzioni internazionali) per fiaccare la resistenza abissina. Nel 1939 fu occupata l’Albania. E poi nel 1940 Mussolini trascinò un paese impreparato nella tragedia della seconda guerra mondiale. E i morti si contarono a centinaia di migliaia. Distruzione, dolore ed esodi, tanto è costato la guerra del Duce. A lui solo e al suo regime vanno ricondotte le conseguenze del conflitto mondiale.

Il regime fascista fu identitario, spudoratamente etnico e nemico delle differenze. Le popolazioni slave presenti sul territorio furono assimilate forzatamente. E poi nel 1938 svelò la sua natura razzista con le Leggi razziali e con il Manifesto della Razza cominciando le persecuzioni sistematiche contro gli ebrei.

Il fascismo non migliorò la vita degli italiani. A fronte di interventi ai quali il regime dava ampia pubblicità (le bonifiche, le campagne per il grano) si assisteva ad un impoverimento sostanziale. La miseria, endemica in larghe parti del paese, rimase presente colpendo vasti strati della popolazione. Mancava l’acqua, i bambini giravano scalzi e la scolarità, nonostante i proclami, restò bassa. A tutto ciò il fascismo non diede soluzioni, se non incentivare le migrazioni verso le colonie.

Era con questa storia che il 25 aprile si voleva fare i conti. Con questa e, ovviamente con lo stadio putrescente del fascismo, la Repubblica Sociale Italiana, espressione ultima, criminale e sanguinaria del movimento di Mussolini.

Nella foto: GAP ed operai Lancia sparano dal tetto di Via Monginevro
Nella foto: GAP ed operai Lancia sparano dal tetto di Via Monginevro

La RSI portò alle estreme conseguenze il culto della morte che era (è) cifra fondamentale del fascismo. Brigate Nere, Guardia Nazionale Repubblicana, SS italiane, X MAS, Ettore Muti queste formazioni si fecero portatrici di massacri, deportazioni, vessazioni, saccheggi. Protagoniste di retate e spietate rappresaglie, continuarono fino all’ultimo la loro opera di morte. Per compiacere l’alleato nazista, lo Stato fantoccio, la Repubblica (come veniva chiamata dalla popolazione e dai partigiani) doveva dimostrare tutta la sua efferatezza, per fare dimenticare il tradimento dell’8 settembre.

In questo quadro complesso si mosse il movimento di Liberazione, si mossero le formazioni partigiane. Spinte, da un lato, dall’esigenza immediata di sconfiggere militarmente le truppe nazifasciste, per impedire loro di continuare le loro azioni, dall’altro di dare un colpo definitivo e farla finita una volta per tutte con quel regime che dal 1922 aveva dominato la vita degli italiani.

Il movimento partigiano fu sicuramente un movimento militare ma esprimeva in pieno una esigenza etica e di responsabilità. Bisognava prendere una posizione, scegliere da che parte stare. Tra una morale di morte e la voglia di libertà non ci potevano essere compromessi. Chi ha scelto di essere partigiano lo ha fatto esprimendo l’esigenza forte di una vita migliore, senza guerre, senza persecuzioni razziali, senza disparità sociali. Sta qui il valore, la grandezza e la superiorità del movimento partigiano.

Purtroppo le cose non andarono così. Dopo un primo momento di novità ed esaltazione per la riconquistata libertà si fece strada una dinamica improntata sulla continuità delle istituzioni. Le tanto decantate epurazioni, alla fine furono poca cosa rispetto a quello che avveniva in altri paesi europei (tanto per farsi un’idea nel 1953, tra le decine di migliaia tra impiegati, dirigenti e altissimi dirigenti dei ministeri fascisti solo in 449 erano stati rimossi dai loro posti. In Francia per 70000 collaborazionisti fu decretata l’indegnità nazionale subito dopo la fine della guerra e solo nel 1953 ci fu una amnistia con l’esclusione comunque dei collaborazionisti dagli ordini professionali).

Ben presto l’amministrazione delle Stato tornò nelle mani di funzionari e burocrati formatisi durante il ventennio fascista. L’amnistia Togliatti del 1946, di fatto, esaurì la possibilità di esercitare una forma di giustizia reale nel paese. Assassini, torturatori, massacratori, stupratori poterono tornare presto in libertà, grazie anche alla complicità di una magistratura costruitasi sotto il fascismo, incline ad una interpretazione a maglie larghe dell’intervento legislativo del ’46.

Nella foto: squadre SAP a Torino il 29 Aprile 1945
Nella foto: squadre SAP a Torino il 29 Aprile 1945

Così, da un lato i fascisti tornavano alla vita civile e politica, magari riciclandosi nei partiti di massa, Democrazia Cristiana in testa (ma non mancarono le “riapparizioni” di personaggi scomodi anche nel Partito Comunista) quando non tornarono attivamente alla propaganda fascista (l’MSI fu fondato già nel 1946) , dall’altro cominciavano ad imbastirsi processi contro partigiani ai quali venivano contestate come azioni criminali quelle che erano state azioni di guerra necessarie per sconfiggere il fascismo (La sentenza del 26 aprile 1954 del Tribunale Supremo Militare Italiano afferma senza mezzi termini che: I combattenti delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana avevano la qualità di belligeranti perché erano comandati da persone responsabili e conosciute, indossavano uniformi e segni distintivi riconoscibili a distanza e portavano apertamente le armi. Gli appartenenti alle formazioni partigiane, viceversa, non avevano la qualità di belligeranti perché non portavano segni distintivi riconoscibili e non portavano apertamente le armi, né erano assoggettati alla legge penale militare).

Torturatori liberi e partigiani sotto processo, questo accadeva alla fine degli anni ’40. E qualcuno cominciò ad esercitare giustizia al di fuori delle istituzioni. Fenomeni come la Volante Rossa (per citare uno dei più famosi) vanno inseriti all’interno di questo quadro sostanziale di impunità, di continuità tra fascismo e stato repubblicano (ancora nel 1960 su 64 prefetti, 62 erano stati funzionari del Ministero degli Interni durante la dittatura. Su 135 questori, 120 avevano fatto parte della polizia fascista. Su 139 vicequestori, tutti avevano fatto parte della polizia fascista), di mancanza di cambiamento reale, di mancanza di giustizia vera. Per tanti non era facile trovarsi per strada l’assassino del proprio caro o del compagno della propria formazione. Ci furono degli eccessi? Probabile ma se non si analizza il contesto se ne perde il senso. E comunque sono esperienze che fanno parte del nostro album di famiglia, che piaccia o meno.

D’altra parte è mancata, e manca ancora oggi una seria riflessione sui crimini di guerra compiuti dal fascismo in Africa e nei Balcani. Nessuno dei responsabili dei massacri ed esecuzioni di massa è mai stato processato. Il generale Graziani, per fare un esempio, responsabile degli eccidi in Etiopia, Ministro della Difesa nella RSI e uno dei suoi principali esponenti, arrestato alla fine della guerra, uscì di prigione dopo pochissimi anni e nel 1952 tornava a fare politica nell’MSI. Addirittura il comune di Affile avrebbe voluto dedicare un sacrario a questo macellaio. Altro che giustizia!

La storia della nostra Resistenza negli ultimi anni è sotto attacco. Scribacchini vari fanno a gara per buttare fango su quell’esperienza. Si portano alla luce presunti eccessi volti a mettere sullo stesso piano fascismo e movimento partigiano. “Siccome tutti hanno commesso atrocità, tutto diviene uguale”: è un po’ questo il senso che una serie di pubblicazioni (che di storico hanno poco o niente come i libri di Pansa) e di trasmissioni televisive cercano di veicolare.

Questo fenomeno ha radici profonde. Per decenni i partiti del cosiddetto Arco Costituzionale (Partito Comunista in testa) hanno fatto della Resistenza un evento mitico, di purezza assoluta, scevro da ogni possibile errore. Hanno, di fatto, eliminato l’elemento umano, sostanza di quella esperienza. Hanno messo in secondo piano il fatto che si sparava e si uccideva, che la guerra, per quanto giusta come fu la nostra Resistenza, è sempre dolorosa.

Il movimento partigiano era fatto da uomini e donne, con la loro alta moralità e con le loro debolezze, con il loro desiderio di giustizia e con la loro voglia di vivere. Tutto questo si è perso nella celebrazione del 25 aprile, per renderla solo al suo elemento eroico e celebrativo. Una specie di messa laica.

È stato quindi gioco facile per i detrattori della Resistenza attaccarla su questo piano: abbattere il mito, disconoscere il dogma, perché alla fine, dietro di esso, ci sono solo uomini e donne.

Ed allora tutto è uguale. E così Luciano Violante (Partito Democratico della Sinistra, ex PCI) poteva dire nel 1994 che era necessario comprendere le ragioni dei “Ragazzi di Salò” come se queste fossero oscure, come non fosse chiaro chi stava dalla parte dei campi di sterminio. Oppure si può affermare che “i morti sono tutti uguali”, affermazione forse condivisibile, se non fosse che i morti, 1 minuto prima di morire, avevano delle idee e delle convinzioni e le une parlavano di guerra e le altre di libertà.

Ma ricondotto al suo piano umano e, soprattutto, reso all’interno del quadro storico entro il quale si muove (che non si esaurisce, come abbiamo visto, nel biennio 1943 – 1945 ma pone le proprie basi nei 20 anni di dittatura) il fenomeno della Resistenza riacquisisce il suo senso, dispiega le sue ragioni e si pone comunque moralmente superiore al fascismo.

Nella foto: Dante Di Nanni, Valentino Francesco e Giuseppe Bravin - I 3 Gappisti che  insieme a Giovanni Pesce attaccarono il 17 Maggio 1944 la stazione radio sulla Stura.  In seguito a questa azione Bravin e Valentino furono feriti, arrestati, torturati ed infine impiccati il 22 Luglio dello stesso anno. Dante Di Nanni venne invece uccise il giorno seguente (18 Maggio 1944) dopo l'eroica resistenza nella casa di Via San Bernardino
Nella foto: Dante Di Nanni, Valentino Francesco e Giuseppe Bravin – I 3 Gappisti che insieme a Giovanni Pesce attaccarono il 17 Maggio 1944 la stazione radio sulla Stura.
In seguito a questa azione Bravin e Valentino furono feriti, arrestati, torturati ed infine impiccati il 22 Luglio dello stesso anno.
Dante Di Nanni venne invece ucciso il giorno seguente (18 Maggio 1944) dopo l’eroica resistenza nella casa di Via San Bernardino

Per questo amiamo i partigiani, veri, che ci hanno raccontato Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Giulio Questi. Partigiani concreti, reali, pieni a volte contradditori, ma che avevano scelto la vita. Per questo non è poi così importante sapere se Dante di Nanni sia morto come racconta Giovanni Pesce in Senza Tregua o in maniera meno “eroica”. La superiorità morale di questo ragazzo di 20 anni stava nella sua capacità di avere scelto una ipotesi, combattere per un mondo libero e senza ingiustizie ed in niente d’altro.

Che Pansa continui a scrivere le sue approssimazioni, che si facciano speciali televisivi su Triangoli Rossi o altre figure geometriche. Avendo presente i contesti, conoscendone profondamente le istanze, continueremo ad essere fieri ed orgogliosi di tutta la Resistenza, rivendicandone precisamente anche gli errori, anche quelli tragici, che in situazioni come quelle di 70 anni fa erano evidentemente possibili. Come comprendiamo le azioni post liberazioni per le quali la responsabilità va addebitata tutta a coloro che, avendone gli strumenti politici e giuridici, non agirono, frustrando l’esigenza di giustizia.

Purtroppo 70 anni fa non si riuscì a liquidare il fascismo. Immediatamente dopo la Liberazione si riformarono ufficialmente (MSI) o scelsero altre strutture. Come un cancro ci portiamo dietro questa esperienza di violenza cieca, come le stragi fasciste tra gli anni ’60 e ’70 ci hanno dimostrato. Ancora oggi, rifiuti della storia, rivendicano l’appartenenza a quel mondo o si dichiarano fascisti del nuovo millennio. Andrebbero ignorati se non cercassero ancora di trovare uno spazio nelle nostre città. Ma noi siamo forti della nostra storia, del lascito dei partigiani, uomini o donne, che ci hanno insegnato tenacemente come sia necessario scegliere la parte, quella che a molti pare sbagliata. Perché le dittature durano anche 20 anni ma poi cadono. Non ci faremo intimidire e sapremo liberare i nostri territori da questi parassiti perché ancora una volta ALDO DICE 26X1

LETTURE CONSIGLIATE

Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Una questione privata, I ventitre giorni della città di Alba
Luigi Meneghello, I piccoli maestri
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno
Giorgio Questi, Uomini e comandanti
Giovanni Pesce, Senza tregua
Ada Gobetti, Diario partigiano
Pietro Chiodi, Banditi
Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo
Giambattista Lazagna, Ponte rotto