Storie di ordinaria resistenza: Giaka racconta la lotta per il diritto alla casa

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Riot – Storie di ordinaria resistenza” è un progetto letterario di materiale resistente edito da Bepress curato da Bob Kolb, giornalista, mediattivista e fotografo freelance. Scrive di conflitto e dissenso sociale. 

Resistenze narrate e vissute dai protagonisti di questa antologia di racconti d’asfalto, ruvidi come il catrame. Una mescola fatta da “teppisti narranti”, che usano le parole come amano usare le pietre, contro un mondo che combattono e rifiutano. Un reticolo di passioni e conflitto sociale, politico, culturale che trova espressione e forma nelle pagine di un libro, come se fosse un corteo, una piazza, la strada.

Milano, Torino, Roma, Napoli, Palermo. Da nord a sud rigurgiti antiautoritari, antifascisti, antisistema. Parole gridate dal cuore della battaglia, tra nemici e sangue versato.

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Vi proponiamo il racconto di Giaka che scrive della lotta per il diritto alla casa in Zona San Paolo…buona lettura!

Il volto segnato e gonfio, lo sguardo annacquato perso nel bruciore di stomaco. Le sei di mattina sono le fottute sei di mattina e Morgan le ha viste arrivare attraverso un bicchiere, cantando e ballando sotto cieli di whiskey torbato e hashish, al riflesso di una luna persa nella commiserazione di sé molte notti prima. E va bene a Fabione, che lui c’è abituato a svegliarsi presto per mettersi al volante dei camion della mondezza, va bene, va bene anche a Piè, che tanto lui ogni mattina prende il tram per andare al duro lavoro, è solo un piccolo sforzo per il buon Piè. Ma per Morgan le sei di mattina sono qualcosa di più che un problema, sono pensieri disarticolati, sono lui seduto sulla tazza del cesso ad aspettare che il culo gli si svegli, sono il suo volto riflesso nello specchio del bagno del piccolo appartamento incasinato. Un volto squallidamente segnato e gonfio con lo sguardo fottuto, annacquato, che si perde nello stramaledetto bruciore di stomaco.

Attacca la radio, radio duemila blackout, l’unica radio libera dell’etere torinese da vent’anni a quella parte, più volte coinvolta dalla magistratura in indagini per la vicinanza alle aree antagoniste e insurrezionaliste della città, laica, godereccia, incazzata e ovviamente con gli studi deserti a quell’ora. La musica della bobina permette l’impercettibile movimento di collo indolenzito e duro. Faccia, denti, un caffè bevuto al volo. Doppia felpa, giacca jeans e un paio di guanti da lavoro in tasca che oggi si busca. Poi la porta di casa, le scale a passo rapido fino al portone e alla strada fredda e livida delle prime luci, alle auto indolenti, mani in tasca a sputare con precisione, a lanciare sguardi torvi e vetrificati fino a quando non arriva Piè in auto.

La panda verde scassata inchioda nel controviale di fronte a Morgan, Piè salta giù dall’auto con lo sguardo tosto e un mezzo sorriso sulle labbra. Osserva Morgan con la testa piegata di lato. – Cazzo che bell’aspetto! Morgan viene scosso da un rigurgito alcolico corrosivo, che trattiene a stento e risolve in un rutto.
– Buongiorno amore, caffettino? – Direi che ne abbiamo entrambi bisogno. Si abbracciano. A Piè lo conosce da una vita, alto, magro, coperto di tatuaggi, con i jeans infilati dentro gli anfibi e la giacchetta nera, la coppola. Gli occhiali dalla montatura sottile e la treccina sulla nuca gli danno quell’aspetto un po’ intellettuale e un po’ selvatico di chi si è laureato in filosofia prendendo il tre dalle vallette. Il secondo caffè ha un sapore migliore del primo e la cosa conforta Morgan per qualche istante, prima che riesploda il bruciore di stomaco. Amaro il caffè, ovviamente, e un po’ lungo. Usciti dal piccolo bar tabacchi Piè riaccende un mozzicone di canna e col culo appoggiato alla panda fa un paio di lunghe aspirate, creando una nuvola di fumo bianco. – A che rinvio siamo arrivati? – E chi li conta più. Non ha nessuna speranza il vecchio.Nessuna speranza. A parte la bassa soglia, il dormitorio, fare la coda per una notte in un letto e alle otto di mattina fuori dai coglioni. Morgan non lo raccomanda a nessuno, nemmeno al vecchio. Già lo immagina a finire duro in un parco, con un cartoccio di vino tra le dita livide e fredde. – Non ha nessun posto dove andare, i figli si sono dimenticati di lui, niente lavoro, niente di niente.
– Fidati di me, quando i tuoi figli si dimenticano di te, un motivo deve pur esserci. – Cosa vuoi dire? – Nulla. Non voglio dire nulla. Si infilano in macchina.
– Proprio nulla.

lungo la strada il primo presagio. Sul marciapiede lurido e spaccato un ratto grigio dalla lunga coda glabra affronta un corvo. Girano in tondo sulla porzione di grigio con ritualismo ipnotico, ogni movimento ha la fatalità della natura.

Arrivano sotto il commissariato di zona dei PS. Il viale è sgombro di camionette. Passano davanti al centro sociale dove, da li a un’ora, ci sarà un primo gancio con i compagni e le compagne, con la rete delle famiglie sotto sfratto. Le mura parlano. “ZONA SAN PAOLO ZAMA NÉ FASCI NÉ MADAMA”. Il centro sociale occupato è l’unico stabile basso in mezzo alle case popolari, una ex scuola elementare con ancora sul muro gli indiani e i tepee disegnati una ventina d’anni prima dai bambini, stilizzati in mezzo al delirio di murales inneggiati alla libertà e all’antifascismo, alla strada, all’occupazione e all’autogestione, alle lotte. Abbandonato par l’amianto, occupato e restituito al quartiere, arrangiato e bonificato da generazioni di ragazzi e ragazze, isola franca, liberata dalle retate degli sbirri, dal proibizionismo, dal profitto.
Nel senso opposto lungo la strada incrociano un’auto della digos. Lo scambio di sguardi è intenso. – Non sono quelli di zona, brutto segno. – Ho l’impressione che oggi ci sarà parecchia merda sulle strade. – Credo anch’io, meglio sbrigarsi.
La panda prosegue lenta fino a quando resta nel raggio visivo dell’autocivetta, poi svolta a destra e inizia a sfrecciare verso il palazzo del vecchio. Piè guida come un pazzo, a suon di bestemmie che se bastassero quelle la macchina prenderebbe il volo. Morgan con il mozzicone di canna spento sull’angolo della bocca attacca l’autoradio, ancora radio blackout antagonista a vita. Sfrecciano sotto la fetta di cielo infame e freddo, tra i lampioni e gli operai che vanno al turno. In due minuti arrivano al portone dello sfratto. Degli sbirri neppure l’ombra, davanti all’ingresso del palazzo una dozzina di compagni e compagne che tirano lo striscione tra due balconi del piano rialzato aiutandosi con una scala, poco più avanti altri che montano un tavolino con la colazione e una
pentola di tè fumante.

Uno stormo di uccelli scuri attraversa l’aria lattiginosa torcendosi come un enorme telo portato dal vento, raggiungono un ripetitore allargandosi potenti, si fermano a mezz’aria nella massima estensione e si posano. Il centinaio di sagome guardano immobili. Secondo presagio. 

– Eccoli! Mentre si avvicina Morgan sorride. Piè saluta gli altri con un cenno di capo e apre con fare distratto la pentola sul tavolino. – Abbiamo beccato un’auto di digos davanti al centro. Dentro c’erano il bello, il brutto e il cattivo. – Tira una brutta aria stamattina – aggiunge Morgan. Non fa in tempo a finire la frase che spunta l’auto della digos e passa lenta davanti al portone, il cattivo e il brutto al volante, a sorridere sfottenti, il bello dietro con la faccia veramente incazzata. Morgan si avvicina al Lupo mentre questo mostra all’auto di sbirri il dito medio. – mi sa che vogliono farci il culo – gli fa Morgan. – credo proprio di si. Il Lupo è chiuso dentro il solito giaccone scuro, dreadlocks coperti dal cappuccio, lunghi che spuntano da dietro, pelle olivastra e tesa, barba incolta, sguardo cattivo. – Il vecchio è su? – Si, con l’avvocato. A quell’ora sono in pochi ma di quelli buoni. Ci sono Fabione, bluto e il Lupo. Lo Spagnolo, Dariaccio e Laura che fanno colazione al bar di fronte, i sambisti che sistemano su lo striscione e il tavolino, mentre chiusi in cerchio a impastare un cilum chiacchierano insensatamente il Zanza, Mambo, Tommy, Betta e Lawrence. Dall’angolo della strada spuntano mr. Orange e il Boliviano. C’è pure Andrei, delle famiglie sotto sfratto, con la sua mole e le sue mani grosse e callose. Ripassa l’auto dei digos, seguita da una seconda. Si fermano un isolato più avanti. – Merda, ci siamo ragazzi! Eccoli! Una terza auto in borghese raggiunge le altre. Due moto della municipale sfrecciano superando picchetto e sbirri. – Cazzo! Stanno chiudendo la via! – Stanno chiudendo la via! È ora di dare la sveglia! Qualcuno telefona ai compagni, qualcun’altro tenta di fare una diretta in radio, Dariaccio impugna il megafono e inizia a gridarci dentro. Morgan non sente, non sente nulla, con il sangue che pompa alle tempie rovescia in mezzo alla strada i cassonetti che trova vicino al portone, insieme agli altri ribalta uno di quelli pesanti in metallo. Compaiono i blindati da un lato e dall’altro, PS e carabinieri con le camionette messe di traverso, una mezza dozzina per quello che si vede dal portone. Ci sono almeno una sessantina di bastardi in divisa, mentre al picchetto sono meno di venti. La matematica, maledetta, non si discute. Non c’è nessuna speranza di resistere, forse solo ripiegando dentro l’edificio. No, questa è la loro zona e gli sbirri li affrontano sull’asfalto, che tutti vedano di cosa sono capaci i porci, e di che coraggio sono capaci i ragazzi e le ragazze del quartiere. E poi nessuno lì al picchetto è mai stato granché in matematica. Avvisano il vecchio al citofono, parlano con l’avvocato. Appena gli agenti in borghese scendono dalle auto i compagni si chiudono in cordone. Tutto è molto veloce. “Giù le mani dalla casa!” Iniziano i cori, le truppe saltano giù dai blindati e si schierano ai lati della strada. Un reparto della celere spunta dalle retrovie e avanza lungo il muro del palazzo verso il picchetto, fermandosi a qualche metro. È una tonnara. I digos si affacciano poco convinti. Chiamano le persone per nome e cognome, dicono che gli dispiace, sul serio, ma che la giornata non dipende da loro, che si sono mossi i piani alti della questura e forse ancora più alti, e che in pratica ‘sta volta sono cazzi da cacare. Il picchetto non risponde, non li degna di uno sguardo, si serra nel cordone, sputa a terra. Un funzionario della questura è rimasto in disparte a osservare in silenzio. I capelli bianchi, giacca anonima blu scuro, occhi porcini dietro occhiali dalla montatura spessa. Impassibile si avvicina al presidio, toglie le mani dalle tasche e le agita all’aria, scocciato, come se dovesse mandare via un insetto.

– Forza! Levateli da lì! Caricate! La celere parte verso i presidianti che si stringono, quelli senza scudo cercano di spostare la gente di peso convinti che la superiorità numerica intimidisca il picchetto. Col cazzo. Volano i primi calcioni, i celerini sorpresi caricano manganelli alla mano, investendo pure i loro funzionari come bestie. Il cordone si spezza sotto la violenza dell’urto ma non si sposta, schiacciato sul portone e contro le auto. Inizia il corpo a corpo. Morgan viene sbalzato via, molla un calcio su un culo, in risposta manganellate sulle braccia, sui fianchi, di striscio sulla testa. Poi qualcuno lo tira indietro, lui prende qualche passo, si piega sulle ginocchia e riparte alla carica buttando un carabiniere contro un bidone. Altre manganellate. Lo spagnolo agguanta uno scudo e lo tira giù, lo fa ruotare con uno strattone per sfilarlo allo sbirro, Bluto si sporge da dietro e serve un colpo con il casco. Ancora manganellate. I compagni e le compagne si serrano e indietreggiano sotto i colpi. Betta riesce a recuperare lo striscione. Solo Fabione e Laura resistono. Piè si infila nel parapiglia e riesce a trascinarli via, prendendo al volo anche Vitto della samba. Per ultimo Cremon, un altro ragazzo della samba, viene sputato via dal comizio atterrando al suolo con una piroetta. Il portone è perso, non sono riusciti a tenerlo neanche dieci minuti. Molti si massaggiano i polsi o le spalle, Cremon ha la testa aperta. La videocamera è sfasciata e nelle mani della digos. I compagni si ricompattano e indietreggiano, ancora in quei venti metri che sono rimasti tra i cordoni di polizia. Il megafono per fortuna è ancora tra le mani di Dariaccio. Le famiglie affacciate sulla strada si sono moltiplicate,
quasi tutti i balconi hanno qualcuno che si sporge o almeno un profilo in una finestra. – Ecco! Ecco come il comune affronta il problema degli sfratti, militarizzando i quartieri, usando la forza pubblica! Perché vogliono che la crisi la si paghi noi! Ricordiamo che l’intero palazzo è di proprietà di una società immobiliare, proprietaria anche di numerosi altri immobili nel quartiere e nella città! Vogliamo il diritto all’insolvenza, noi la crisi non la paghiamo! Mentre le manovre del governo continuano a cautelare le banche e i poteri che la crisi l’hanno creata, mentre Torino diventa la seconda città in Italia per il numero di sfratti, mentre il lavoro è sempre più precario, la questura e la politica cittadina oggi ci hanno dichiarato guerra, hanno dichiarato guerra a chi non arriva a fine mese, hanno dichiarato guerra a chi si trova a sessant’anni in mezzo alla strada, senza un lavoro, senza nessuna possibilità! Ci sfruttano, ci sfrattano, ci danno polizia, perché noi non viviamo di rendita, né di speculazioni! Scendete per strada! Unitevi a noi! La rabbia comincia a crescere, intanto oltre i cordoni si sono formati due presidi di compagni accorsi dopo le telefonate. I numeri sono ristretti ma le bande hanno risposto un po’ tutte, ci sono gli altri del centro sociale, gli autonomi, gli anarchici, i ragazzi delle case occupate. Spunta il Puma accompagnato da Narcolino, si avvicinano agli sbirri e iniziano a sfotterli. Tirano fuori un sacchetto di biscotti per cani a forma di osso e li distribuiscono ai piedi degli agenti. Un altro gruppetto di compagni blocca il corso più vicino, un altro ancora sta facendo il giro del mercato del quartiere. Arrivano i fabbri passando protetti dagli agenti schierati, il picchetto gli si fionda contro ma viene intercettato dall’antisommossa. – Infami! Siete due infami! – Servi degli sbirri! Servi! Merde! Qualche spintone contro gli scudi e i fabbri scompaiono nel portone. Dopo pochi minuti escono due agenti in borghese, l’ufficiale giudiziario, l’avvocato e il vecchio. A Morgan si stringe il cuore. Lo vede il vecchio, mentre con lo sguardo annacquato riempie il torace d’aria a cercare un briciolo di dignità. Gli occhi lucidi di paura e alcol, stanchi di essere disperati. Quando sono entrati in quel bilocale minuscolo che era la sua casa, la sua vita, ha minacciato di tagliarsi la pancia con un coltellaccio da cucina. Ora è li sul marciapiede, stretto nel piumino da quattro soldi con un sacchetto di plastica in mano. Solo, senza più nulla. L’ufficiale giudiziario se ne va, la proprietà non si è proprio fatta vedere. La vita di una persona non vale neppure mezza giornata. L’avvocato riesce a contrattare con una funzionaria un incontro con i servizi sociali, viene concesso tanto non serve a nulla, lo sanno i compagni, lo sanno gli sbirri, forse lo sanno pure i muri in quel quartiere. Hanno perso. Morgan si sente male, il cuore batte all’impazzata per la rabbia, chiude gli occhi. L’ufficiale giudiziario se n’è andato, la proprietà non si è fatta proprio vedere. Un senso di frustrazione lo pervade, una rabbia dentro che ormai è diventata ostilità, è diventato odio.

Un gatto è sul ciglio della strada, nero, fissa Morgan dritto negli occhi, lo sguardo giallo intenso. Miagola mostrando i piccoli denti aguzzi, ancora, ancora, poi gira lo sguardo verso gli agenti. Contorce il muso in un soffio rabbioso, orecchie basse, pelo gonfio sulla schiena incurvata. Con due balzi entra in una finestra. Terzo presagio.

Dopo un’ora la polizia inizia a spostarsi verso i blindati lasciando nuovamente libera la via, i compagni si riuniscono a quel che è rimasto dei due picchetti, ora sono in una ventina. Si compattano. I reparti mobili risalgono sui mezzi che iniziano le manovre, e alla fine in mezzo alla strada restano solo i funzionari e la digos. I manifestanti si spostano rumorosi verso di loro. “Ve ne dovete andare!” “Avete fatto i cazzi vostri, ora fuori dal nostro quartiere!” “Fuori dai coglioni! Ve ne dovete andare!”. I passi diventano quasi una corsa, i compagni impattano sugli agenti spintonandoli, tirando calci e pugni. Gli sbirri in borghese incassano e indietreggiano spaventati, qualcuno grida ai blindati in manovra di fermarsi. Questi inchiodano, le truppe si fiondano di nuovo in strada e si schierano tra i funzionari e il mucchio. Saltellano nervosi, vogliono spaccare qualche testa. I manifestanti si chiudono in cordone, un solo cordone. Il sangue pompa, cinture e caschi alla mano. Morgan chiude i pugni fino a far sbiancare le nocche. Uno dei funzionari anziani della digos fa un passo avanti, è alto e secco, sguardo e voce fermi.
– Andatevene altrimenti vi carichiamo. – Questo è il nostro quartiere – Risponde il Lupo – Dovete andarvene voi. La carica parte violenta, il cordone incassa, indietreggia, risponde. Parte una seconda carica, una terza. E colpo su colpo il cordone incassa e risponde. Caschi che si schiantano su scudi che si spaccano, colpi di cinghia, manganellate, calci, pugni. “Noi di qua non ce ne andiamo!” “Questo è il nostro quartiere!”. Alla quarta carica il cordone si scioglie, indietreggia di qualche metro. Il funzionario della digos ferma i suoi uomini. Le ferite bruciano, Zanza e lo Spagnolo sono stati chiusi contro le auto e pestati duramente, gli altri chi più chi meno sono tutti comunque rotti. Si schierano di nuovo, un cordone di animali feriti. Questo è il loro quartiere, quello del loro centro sociale, quello delle popolari nelle quali sono cresciuti. Il funzionario della digos serra le labbra secche in un sorriso, poi fa ritirare gli uomini. Prima le autocivetta poi le camionette vanno via tutti. Morgan e gli altri restano in mezzo alla strada finché gli sbirri non si tolgono dalla vista, poi si muovono in un corteo spontaneo fino al centro sociale, un corteo silenzioso dietro lo striscione “LA DIGNITÀ NON SI SFRATTA”. Il vecchio è con loro. Arrivati nella lingua d’asfalto che fa da cortile iniziano a medicarsi. Maurice l’infermiere recupera garze, disinfettanti e ghiaccio secco dalla palestra popolare, in quattro vanno a farsi ricucire in ospedale. L’attesa è piena di eccitazione, ognuno condivide quello che ha vissuto, l’aria si riempie di
risate e la tensione si allenta un po’. Alcune compagne si occupano di scrivere immediatamente un comunicato da far girare in rete e nell’etere, viene condiviso ai gradoni del cortile, intanto le famiglie sotto sfratto e altri compagni raggiungono il centro. Dopo un’oretta sono in una cinquantina. Il Lupo mette in moto il furgone, fa manovra e lo sistema con l’apertura del cassone verso l’ingresso del salone dei concerti, in modo tale che dalla strada non si vedano i traffici. Vengono caricati generatore e moletta, scala, piede di porco, tubi innocenti lunghi due metri, prolunghe, salgono anche una decina di compagni e compagne duri e incazzati. Due gruppi partono a piedi alla spicciolata, poi è il turno del furgone. Morgan è con gli altri nel cassone. Nessuno parla, si sentono solo i rumori della strada e delle balestre che cigolano ad ogni salto, sono tesi ad aspettare la frenata. Arriva. I due sportelli si aprono e tutti saltano giù, devono fare in fretta, scaricare tutto, poi il furgone riparte e scompare all’angolo. Morgan si mette da palo, non si copre il volto per non marcare,. Il portone in vecchio legno marcio con il piede di porco si apre al primo tentativo. Entrano, portano tutto dentro e richiudono puntellando con i tubi innocenti. Attaccano il generatore e iniziano a tagliare i cardini del cancello in acciaio che da sulle scale, intanto dal cortile appoggiano la scala sul ballatoio del primo piano. Qualcuno sale e forza una delle finestre rovinate e senza vetri, raggiunge il cancello da dentro e inizia a prendere a martellate i cardini già indeboliti. Infine l’acciaio salta e sono dentro. Salgono le scale fino al pianerottolo del secondo piano, dove una delle porte sembra essere stata risparmiata dai tossici. La serratura cede e sono dentro, le stanze sono vuote e impolverate, senza mobili, i vetri rotti, Il soffitto e le pareti scrostati, gli impianti tutti da rifare. Morgan raggiunge il balcone che da sulla via. I compagni partiti a piedi dal centro sociale stanno arrivando in corteo, in mezzo il vecchio. Morgan respira a fondo l’aria fredda del mattino. Questa è la sua vita. Difenderà questo posto, starà sveglio tutta la notte ad aspettarli, in cieli di wihskey e hashish senza luna, e se gli sbirri verranno non riuscirano a togliere niente di quello che sta provando ora, di quel calore, di quel senso di comune, di libertà, di riscatto. Fissa lo striscione al parapetto, lo lascia srotolare al vento. La dignità non si sfratta.