Appunti sulla risposta del Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e immigrazione al Rapporto del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Non ci vogliono i morti per capire che i CPR devono chiudere immediatamente.
Il 14 giugno 2021 il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale visita il CPR di Torino a seguito della morte di Moussa Balde. Il ragazzo, dopo essere stato vittima di un violento pestaggio solo qualche settimana prima a Ventimiglia, viene ricoverato all’ospedale di Bordighera ma, una volta dimesso, invece di proseguire le cure viene trasferito nel CPR di Torino, messo in isolamento all’interno dell’ospedaletto dove si impicca dopo due giorni annodandosi le lenzuola al collo. Ricordiamo per l’ennesima volta la vicenda di Moussa perché in essa sono racchiuse tutte le contraddizioni, l’ipocrisia e la violenza delle istituzioni responsabili dell’esistenza dei CPR.
Il rapporto del garante, che rilevava alcune criticità all’interno del CPR di Torino e raccomandava delle modifiche strutturali e regolamentari, ha ricevuto una risposta da parte dei dirigenti del dipartimento per le libertà civili e immigrazione, e dal prefetto di Torino. Contraddizioni, ammissioni di responsabilità e falsificazione della realtà contraddistinguono tale risposta che di seguito abbiamo analizzato punto per punto, cercando di mostrare nuovamente la complicità razzista dei vari dipartimenti governativi.
Ospedaletto
Tante sono state le denunce sull’utilizzo dell’ospedaletto e solo dopo la morte di Moussa e la conseguente indagine, le istituzioni hanno deciso di agire.
Non gli era bastata la morte di Faisal Hossain nel 2019.
Nel rapporto del Ministero degli interni si parla di chiusura temporanea e di ristrutturazione dello stabile. Se la funzione proclamata di questo luogo dovrebbe essere la tutela delle persone che non sono in grado di sostenere la vita “comunitaria” durante la reclusione, la funzione effettiva è volta a isolarle in condizioni pessime -comportando un ovvio incremento del malessere psico-fisico o a punire coloro che creano problemi.
E’ una pratica comune anche in carcere utilizzare la facciata della presa in cura psichiatrica e sanitaria per nascondere pratiche punitive e di vera e propria tortura. Il prefetto Palomba ha il coraggio di stupirsi di fronte alla decisione di chiudere questo spazio dal momento che, a detta sua, sono state apportate una serie di modifiche per rendere gli ambienti più gradevoli…(così gradevoli che una persona si è impiccata pochi mesi fa).
Sebbene la chiusura dell’ospedaletto sembri una vittoria, la non trasparenza e non conoscibilità di cosa succede dentro i Cpr desta gravi preoccupazioni su quali nuove pratiche prenderanno il posto dell’isolamento “sanitario”. Sarebbe assurdo pensare che la chiusura dell’ospedaletto porti con sé un cambio di mentalità. I Cpr continueranno ad essere luoghi di repressione, violenta e assassina, a prescindere da qualsiasi riforma venga promossa.
Trattenimento oltre i termini previsti.
Nel periodo iniziale della pandemia, con le frontiere chiuse, i rimpatri erano bloccati. Nessuna ipotesi di liberazione dei detenuti è stata vagliata. Di conseguenza, i detenuti sono stati costretti a rimanere dentro la struttura per un tempo maggiore rispetto a quello massimo. I prolungamenti detentivi però non sono solo legati al periodo pandemico. La mancanza di accordi con paesi terzi spesso si trasforma in un tempo di detenzione maggiore. Nel documento, il prefetto si trincera dietro la giurisprudenza che prevede la possibilità che l’amministrazione possa incontrare delle difficoltà nell’identificazione, prima di scaricare le colpe sul cittadino straniero, reo di non voler essere rimpatriato.
Monitoraggio del CPR.
Il monitoraggio all’interno del CPR viene svolto principalmente dai capi della polizia (nello specifico dal Dirigente dell’Area IV della Prefettura di Torino) che difficilmente denuncerebbero i propri sottoposti per le azioni di pestaggio e tortura che ben conosciamo, ma le cui notizie difficilmente riescono a valicare le mura del CPR. L’operato dell’Ente Gestore (GEPSA) viene monitorato durante le RIUNIONI con Prefetto e capi delle FFOO e dell’esercito, luogo tutt’altro che imparziale per far emergere le reali dinamiche all’interno del CPR.
Non crediamo sia utile un monitoraggio eticamente più cosciente delle condizioni all’interno della struttura. Nessun controllo dei controllori salverà i detenuti da torture e violenza. L’unica sicurezza necessaria è la chiusura dei CPR.
Presenza minore all’interno del CPR.
Come più volte denunciato, all’interno del CPR spesso finiscono ragazzi giovanissimi. Nella risposta al rapporto del garante si fa riferimento alla vicenda del minore palestinese al quale non è stata riconosciuta l’età da lui dichiarata in fase processuale (la procedura di accertamento età è controversa e soggetta a numerose critiche). Il ragazzo solo dopo 4 mesi viene rilasciato (con un provvedimento di espulsione) per motivi sanitari (disagio psicosomatico). A questo punto ci sorge un dubbio: se i problemi del ragazzo erano già conosciuti prima del trattenimento, perché non sono stati evidenziati nella visita all’entrata nel CPR e perché non ne hanno determinato la non idoneità alla reclusione? Se invece tali problemi sono stati sviluppati all’interno della struttura, questa non è che un’altra conferma che dal CPR i detenuti escono in condizioni peggiori di quando sono entrati.
Visita preliminare all’ingresso della struttura.
Il regolamento unico dei CIE (ora CPR) afferma all’articolo 3 che “lo straniero al centro previa visita medica effettuata dal medico ASL o dell’azienda ospedaliera, che accerta l’assenza di patologie evidenti che rendono incompatibile l’ingresso e la permanenza del medesimo nella struttura, quali malattie infettive o contagiose e pericolose per la comunità, stati psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative che non possono ricevere cure adeguate in comunità ristrette.”
Tale visita non avviene quasi mai. Il prefetto dichiara che questa viene effettuata, come spesso è stato denunciato, solo dal medico responsabile del CPR e prevede il solo esame obiettivo. Non vengono effettuati anamnesi ed esami di laboratorio strumentali né tantomeno una perizia psichiatrica.
I primi contatti tra prefettura e ASL TO1 risalgono al 2015 (quasi 20 anni dopo l’apertura del CPR di Torino) con la firma di un protocollo di intesa. Nel 2019, il prefetto parla di riavvio di contatti tra i due enti per dare piena attuazione all’articolo 3 del regolamento per il rilascio dell’idoneità alla reclusione (guarda caso proprio nello stesso anno in cui Faisal Hossai viene ucciso all’interno del CPR di Torino).
A giugno 2021 c’è stato un nuovo incontro tra ASL e prefettura (proprio dopo la morte di Moussa… [che coincidenza]).
Da parte sua, l’ASL si scrolla qualsiasi responsabilità effettiva e potenziale affermando ” l’estrema difficoltà di dar corso alla previsione normativa relativa al rilascio del certificato di idoneità alla vita comunitaria ristretta a cura dell’ASL per la scarsa definizione delle patologie ostative, nonché per la necessità di procedere oltre il solo esame obiettivo richiedendo quindi esami di laboratorio e visita psichiatrica. Tutto ciò riguarda un periodo di tempo non breve, certo non di poche ore, tempo durante il quale il migrante non può essere inserito in comunità“. Tale dichiarazione afferma in breve che ASL e prefettura scommettono sulla vita dei detenuti.
Un detenuto non idoneo, impossibilitato ad entrare nel CPR, comporta soldi in meno nelle tasche dell’ente gestore (GEPSA) che in tutto ciò non rimane certo a guardare, ma è parte attiva di questo gioco mortale: i medici interni alla struttura sono assunti dall’azienda stessa.
Tutto questo, vale la pena ricordarlo, avviene sotto gli occhi dell’ordine dei medici che da qualche mese ha stipulato un accordo per l’accesso di personale medico volontario all’interno del CPR.
Proclamare l’assenza di risorse e strumenti al fine di giustificarsi è una pratica ben nota che mostra in tutta la sua violenza il razzismo sistemico che c’è dietro.
Assistenza psichiatrica.
“Attualmente è assicurato un servizio a chiamata con i medici psichiatri della ASL” e “un servizio assicurato da psichiatri volontari“. Dunque, l’assistenza psichiatrica è demandata a VOLONTARI e a CHIAMATA sebbene, come dichiarò nel 2019 Fulvio Pitanti, medico ultra ottantenne del CPR di Torino, “gli psicofarmaci si usano a litri” ed è risaputo che molti dei detenuti entrano già con patologie psichiche o le sviluppano all’interno della struttura.
(Molto più che) Un rischio suicidario.
Negli anni molti sono stati i tentativi di suicidio e di ferimenti autoinferti in risposta alle condizioni disumane, alle violenze psicologiche e le torture fisiche a cui i detenuti sono costretti. In alcuni casi queste eventualità sono molto più che un rischio, Moussa si è tolto la vita perché non sopportava di essere rinchiuso dentro quelle mura.
Ciò nonostante, le chiamate di emergenza effettuate dai detenuti risultano pochissime e se avvenivano, quando ancora era concesso di tenere i cellulari, venivano ignorate da parte del pronto soccorso.
Comunicazione dei detenuti con l’esterno.
Da gennaio 2020 i telefoni cellulare sono stati interdetti per “utilizzo improprio, tra cui mantenimento di contatti con Gruppi antagonisti ostili alla presenza di strutture come i CPR“. Scrollare le proprie responsabilità sui detenuti è ipocrita e meschino. La verità è che il ritiro dei cellulari è un’altra punizione inferta ai detenuti dato che erano il loro principale mezzo di comunicazione con famiglie e amic*. Era anche lo strumento attraverso cui foto e video delle terribili condizioni di detenzione riuscivano ad essere pubbliche all’esterno. Forse questo dava qualche preoccupazione al prefetto.
Ad oggi, le telefonate possono essere effettuate solo verso l’esterno, a pagamento e con linea fissa, con la conseguenza che, in considerazione dei costi, è estremamente difficile mantenere contatti con i parenti all’estero; privati del proprio apparecchio cellulare, i detenuti non possono ricevere chiamate dal momento che l’amministrazione ha sempre rifiutato di fornire il numero dei telefoni installati nel centro.
Secondo la relazione della Direttrice Centrale del dipartimento per le libertà civili e immigrazione Lattarulo (confermata dal Prefetto), i colloqui con gli/le avvocati/e non si sono mai interrotti. Peccato che gli/le avvocati/e affermino il contrario…ma figuriamoci se dopo tutte queste scuse così puntuali nel non prendersi la responsabilità di alcunché potremmo non credere alla Prefettura.
Non ci basta l’ospedaletto chiuso,
Non vogliamo altre finte soluzioni,
Vogliamo i CPR chiusi subito
Sportello Il-legale – Mai più CPR – Mai più Lager