Partigiani razza meticcia

La lotta al nazismo e al fascismo attraversò tutta l’Europa, fu una lotta senza quartiere e confine a cui tutti i popoli coinvolti parteciparono, in una nuova esperienza meticcia per ottenere la libertà.
Nella Resistenza e nella lotta partigiana italiana furono presenti molti combattenti stranieri: sono quasi 2000 infatti i nomi elencati nel registro del partigianato in Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Lombardia e Emilia Romagna.
La maggior parte di loro giunse in Italia come prigionieri oppure inquadrati, a volte a forza, nelle file dell’esercito tedesco che dal 1942 in poi iniziò ad arruolare reparti anche tra la popolazione dei paesi occupati e tra i carcerati di guerra. Già il 16 dicembre del 1943 l’Ost-Btl. 617, composto da russi e da popoli caucasici facenti parte dell’Unione Sovietica, venne stanziato a Susa e subito fu impiegato nelle sanguinose azioni di rappresaglia e rastrellamento antipartigiano nelle provincie di Torino e Cuneo, diventando presto tristemente noto tra la popolazione con il nomignolo di mongoli per i tratti somatici dei membri del battaglione. Il numero delle diserzioni era molto alto in questi reparti: gli elenchi riportano il nome di ben 220 partigiani registrati provenienti dalle nazionalità della disciolta URSS nel territorio del Piemonte e della Liguria.
Nel rapporto firmato dal comandante del Sicherungs-Regiment 38, un comando della Wehrmacht per la lotta contro le “bande” con sede a Pinerolo, si descrive l’attività operativa di due battaglioni dell’Est, dal novembre 1943 alla fine di giugno 1944: proprio in questo mese ben 4 marescialli, 15 sottufficiali e 114 uomini del battaglione georgiano (Georg. Feldbtl. II./198) disertarono con armi e bagagli, raggiungendo i partigiani della Valle di Susa. I nomi di 25 di loro sono ricordati a Bussoleno dove dal 1978 è presente, di fianco all’ingresso della Scuola Media Statale in via Don Carlo Prinetto 2, una lapide interamente in georgiano che riporta anche il reparto a cui si unirono, la 106° Brigata Garibaldi “Giordano Velino”, attiva nella media Val di Susa.
Sempre in Val di Susa si costituirono battaglioni specifici nelle varie divisioni partigiane presenti in zona che contribuirono con valore: nella 42° Brigata garibaldina “Walter Fontan” era aggregato un gruppo di partigiani russi nei distaccamenti “Leschiera” e “A.Rossero” durante la vittoriosa battaglia del Balmafol (8 luglio 1944). Una lapide, inserita nel più ampio monumento sul luogo della battaglia, ricorda il coraggio di chi, pur in terra straniera, scelse di stare a fianco degli oppressi. Altri monumenti e lapidi sono presenti in Valle come quella che ricorda i caduti Vachtang Gagnidze e Shota Namiceishvili, partigiani di origine georgiana trucidati in un’imboscata il 15 aprile 1945, che si trova a Borgata Muni (frazione di Condove). Nei pressi si trova anche il piazzale intitolato dal 1 settembre 2016 al Distaccamento georgiano della 113° Brigata Garibaldi.
Nelle Langhe operò invece una brigata “internazionale” denominata ISLAFRAN (212° Brigata Garibaldi “Maruffi”) composta da italiani, slavi e francesi. Ed era slavo, sloveno di Trieste, Boris Bradac che venne fucilato a Rocca Canavese il 26 marzo 1945, a cui è dedicata la sede ANPI di Chivasso.
Un cospicuo numero di salme di stranieri, oltre 100, è presente anche nel campo della gloria del cimitero monumentale di Torino grazie all’opera condotta per anni da Nicola Grosa che ne raccolse qui i corpi recuperati pazientemente su tutto il territorio piemontese e valdostano.
D’altronde la stessa narrazione sulla Resistenza riporta alla luce partigiani stranieri che operarono nei nostri territori. È il caso del partigiano Lulù, al secolo Luis Chabas, ebreo francese, le cui gesta sono ricordate da Pietro Chiodi nello splendido Banditi. O della medaglia d’oro al valore militare Fëdor Andrianovič Poletaev al quale si sarebbe ispirato Beppe Fenoglio nel tratteggiare il personaggio di Volodka ne Il partigiano Johnny e ricordato in Ponte Rotto di G. B. Lazagna.
È interessante inoltre ricordare quelle esperienze partigiane che videro protagoniste formazioni con al loro interno uomini provenienti dalle allora colonie italiane. Ne è un esempio la banda formatasi a Roti nel maceratese e composta da somali, eritrei ed etiopi (oltre che da russi, croati e ovviamente italiani). Come non si può non sottolineare la storia di Giorgio Marincola, italo-somalo, caduto nei pressi di Bolzano nel 1945 e medaglia d’oro al valor militare (la sua storia è racconta in Razza Partigiana di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio).

Proprio la presenza di una così nutrita schiera di stranieri nella Resistenza italiana ci obbliga a riaprire un capitolo, tutto da scrivere, sulla lotta partigiana.
Una storia e un ricordo complicati da ricostruire: la fine della guerra al nazifascismo segnò l’inizio della guerra fredda e in breve il mondo si divise in due zone contrapposte. La storia fu scritta dai vincitori e non ci si poteva permettere di dare troppo peso alla lotta degli stranieri per non sminuire l’italianità della lotta di liberazione, così come al rientro nei paesi di origine spesso i combattenti subivano periodi di internamento e si sconsigliava di divulgare esperienze avute oltre cortina. Dal 1945 in poi il silenzio fu imposto che si fosse da una parte o dall’altra della barricata cancellando così di colpo le esperienze di chi, giunto come occupante, aveva saputo scegliere la solidarietà riconoscendosi uguale ai popoli oppressi o di chi, seppur esiliato, aveva identificato nel fascismo il male da combattere.
Ma queste storia meritano di ritornare alla luce per riconsegnare al loro giusto valore le scelte di campo di tanti. Perché la lotta al nazifascismo, lo abbiamo già scritto, fu trasversale, propria di tante nazionalità. E riconoscerla come tale ci aiuta a superare quell’idea di confine che divide: di fronte alla cultura della morte e della sopraffazione il senso di solidarietà prevale.
E in giorni come i nostri, nei quali l’essere straniero viene spesso visto con sospetto, ricordare il sacrificio di tanti non italiani nella lotta contro il fascismo, non assume allora solo un valore meramente storico. Anche questi combattenti ambivano, con il crollo del nazifascismo, a una nuova idea di società, basata sull’eguaglianza e l’emancipazione. Pensare al contributo di slavi, francesi, eritrei o somali nella Resistenza ci aiuta a ricordare che nella ricerca della libertà non si possono anteporre barriere di alcun genere. La ricerca della libertà non può avere confini o escludere i più deboli.
La Resistenza per certi versi è stata “meticcia”, contaminata da numerosi popoli. È stata accogliente. Accoglienza che come 72 anni fa, vogliamo ancora nei nostri territori.

BIOGRAFIE
Giorgio Marincola
Nasce nell’allora Somalia italiana nel 1923. Padre italiano e madre somala, si trasferisce in Italia nel 1933. Nel 1943 entra a far parte di una formazione partigiana legata al Partito d’Azione operante nel Lazio. Dopo la liberazione di Roma si arruola con una missione militare alleata e nel 1944 viene paracadutato nel biellese. Viene catturato nel 1945 e, dopo una serie di trasferimenti, condotto nel campo di concentramento di Bolzano. Liberato, rifiuta di riparare in Svizzera e si unisce alle formazioni partigiane trentine. Muore il 4 maggio 1945 in uno scontro con truppe SS in ritirata. Medaglia d’oro al valor militare.
Carlo Abbamagal
Etiope, la sua biografia è poco conosciuta, lo stesso nome è quello di battaglia. Si unisce nel 1943 alla formazione partigiana comandata da Mario Depangher, la cosiddetta “Banda Mario” operante nel maceratese e composta da italiani, slavi, ex prigionieri alleati e africani delle allora colonie italiane. Cade in combattimento in uno scontro con le Wermacht il 24 novembre 1943 nei pressi di San Severino Marche. Nel 2014 il suo corpo è stato tumulato nel cimitero della cittadina marchigiana: Carlo Abbamagal. Etiope partigiano del Battaglione Mario di San Severino Marche insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo caduto per la libertà d’Italia e d’Europa (dalla targa commemorativa).
Fëdor Andrianovič Poletaev
Soldato dell’Armata Rossa, viene catturato dai tedeschi nel 1942 e internato prima in Polonia e poi in Italia. Fuggito nel 1944 dal campo di concentramento, insieme ad altri sovietici, raggiunge le formazioni partigiane garibaldine dell’Appennino ligure. Cade in combattimento il 2 febbraio 1945 nella battaglia di Cantalupo. Qui è stato edificato un monumento a ricordo del suo coraggio. Eroe dell’Unione Sovietica e Medaglia d’oro al valor militare.

LA GUERRA E I MURI DI FUORI E DI DENTRO

Prima di qualsiasi ragionamento riteniamo utile sgomberare il campo da due atteggiamenti che vogliamo evitare.
Il primo è uno sguardo caritatevole e umanitario, che vede nel/la migrante una persona da aiutare e a cui elargire parte della nostra fortuna di occidentali benestanti. Questo approccio, che schiaccia la complessità di un desiderio sulla fuga da guerre e persecuzioni, trova ampio spazio nella sinistra “democratica” e nel mondo cattolico, ma non permette di riconoscere al/la migrante la sua intera statura di essere umano.
Il secondo sguardo è di segno opposto e vede nel/la migrante un (a volte IL) soggetto rivoluzionario, in sè e per sè. Anche in questo caso le contraddizioni che attraversano le singolarità migranti sono appiattite, non si considerano le forti radici etnico culturali che esse portano con sè, e si finisce per stupirsi della scarsa attitudine alla rivolta che queste persone spesso dimostrano.

E’ innegabile, tuttavia, che questi imponenti movimenti di persone e di desideri portino in sè un potenziale che spaventa l’ordine neoliberale, il quale mette in campo molteplici dispositivi per disciplinare le soggettività migranti e, in alcuni casi, per mettere a valore queste esistenze.
Proprio in questa chiave va letto il progressivo cambiamento del concetto di confine cui eravamo abituati. I confini postomoderni si spostano e si delocalizzano e sono diversamente permeabili. I confini interni alla UE, ad esempio, resi fluidi con il trattato di Schengen, riacompaiono improvvisamente con tutta la loro violenza: a Ventimiglia e in Ticino, e ancora sul Brennero e a Calais. Contemporaneamente i confini esterni della fortezza Europa si dislocano e il loro controllo viene demandato a stati terzi: la Turchia, dittatura pseudodemocratica, e la Libia, dilaniata dalla guerra civile.

Chi riesce comunque ad attraversare le maglie sempre più strette delle reti di confine, reti sempre più materiali come quella ungherese o quella nord-americana, entra in un meccanismo di inclusione differenziale, cioè di divisione tra migrante da accogliere (perchè proveniente da particolari aree geografiche e perchè dimostra, con umiltà e rispetto, di volersi integrare e sottomettere) e migrante da rifiutare; non da espellere, malgrado a volte anche questo accada, ma da dichiarare illegale, perchè il/la migrante illegale è parte integrante di questo complesso sistema a varie soglie di intensità: serve per coprire l’enorme necessità di lavoro nero (pensiamo all’agricoltura o al badantato), ma serve anche a creare il senso di insicurezza che permette l’adozione di misure securitarie e di controllo sociale altrimenti difficilmente giustificabili.
Una forma particolarmente estrema della criminalizzazione è la detenzione nei CIE (ora CPR), che il ministro Minniti per decreto vuole ampliare: strutture carcerarie in cui i detenuti sono sottoposti al libero arbitrio del personale in servizio, le loro libertà sono ulteriormente ristrette e vengono trattati con psicofarmaci senza indicazione medica.

Ultimo anello di questa catena è proprio l’accoglienza, quella virtuosa, quella che, comunque, riguarda un numero estremamente piccolo di richiedenti asilo. Per loro infatti il meccanismo è più sottile: attraverso una serie di diritti garantiti, almeno parzialmente, come vitto e alloggio, si crea un rapporto di dipendenza che lega il soddisfacimento dei bisogni, anche i più elementari, alle elargizioni del sistema.

Cosa giustifica questo enorme sforzo di assoggettamento e controllo?
Come premesso non crediamo ingenuamente che il/la migrante sia un/a rivoluzionario/a; ci sembra però che sia portatore, spesso suo malgrado, di una forte carica sovversiva, che il sistema si impegna a disinnescare.
Con il loro movimento,continuo e non arginabile, i/le migranti mettono in crisi l’idea di confine e obbligano a ripensare uno dei meccanismi alla base del buon funzionamento del sistema neoliberale: l’opposizione dentro fuori. Mostrando a tutti la violenza arbitraria di un segno tracciato su una mappa, obbligano a pensare, per qualcuno con orrore, ad un mondo senza frontiere.

Con la loro presenza, o addirittura con la loro assenza, quando le cronache ci informano dell’ennesimo naufragio, portano ferocemente all’attenzione di tutte/i il prezzo della società del benessere. L’altra faccia della medaglia della globalizzazione capitalista, a lungo relegata dove occhio non vede, si materializza ora proprio sotto i nostri occhi.

Da ultimo, ma non certo per importanza, i/le migranti sono portatori di un desiderio potente: di una vita migliore, di tempi e spazi, di libertà da guerre e sofferenze. Senza idealizzarlo ci rendiamo però conto di quanto forte possa essere, se spinge ad abbandonare le proprie radici e ad affrontare il viaggio che, qualunque sia l’origine, è un azzardo in cui il pegno è la vita.

Rimane inevasa la questione più rilevante: che fare? Senza la pretesa di possedere formule magiche, crediamo che le risposte si trovino lavorando fianco a fianco con i/le migranti e abitando insieme a loro le contraddizioni che ci attraversano.
Crediamo possa essere fruttuoso l’incontro tra l’esperienza di decenni di organizzazione e lotta dei nostri movimenti, con la potenza desiderante di chi arriva da altre esperienze e da altre lotte. Crediamo infine che favorendo processi di autonomia ed autodeterminazione degli uomini e delle donne migranti si possano costruire, nel qui ed ora, forme di vita rivoluzionarie.

Contemporaneamente è fondamentale ostacolare i dispositivi oppressivi che sottraggono libertà e potenza ai/lle migranti: la presa di coscienza degli operatori dell’accoglienza, autoconvocatisi a Roma per discutere il loro ruolo e contrastare il decreto Minniti, è una lotta importante, come altrettanto importanti sono le forme di resistenza ai CIE e il sostegno al transito.

Tutto ciò, senza perdere l’approccio di ricomposizione sociale, che ci vede schierati, migranti e non, nella lotta per il diritto alla casa, al reddito, alla libertà di movimento.

LA LIBERTA’ SI CONQUISTA (ANCHE NELLO SPORT!)

Lo Sport nella sua storia, non è mai stato separato dal contesto sociale, culturale ed economico. La politica, i governi (formalmente democratici o chiaramente dittatoriali) e il sistema economico dominante hanno utilizzato lo sport moderno come strumento di consenso ma anche di imposizione educativa e di controllo della società. Il colonialismo inglese ad esempio utilizzò il cricket, tipico gioco della borghesia vittoriana, come “strumento di civilizzazione” nel subcontinente indiano: le regole del gentlemen’s game per “civilizzare” le popolazioni assoggetate.
Le prime olimpiadi dello sport moderno si svolsero con la completa esclusione delle donne. Lo status di atleta-donna non era infatti contemplato dall’ideatore delle Olimpiadi moderne, il barone De Coubertin. In quelle Olimpiadi la maratoneta greca Stamata Revithi, una delle atlete alle quali venne impedito di gareggiare con gli uomini, decise di correre lo stesso la maratona, ma il giorno dopo quella ufficiale, tagliò il traguardo in 5 ore coronando il suo gesto esemplare che aprì di fatto la strada alle donne per le successive Olimpiadi di Parigi.
Con le dittature nazi-fasciste europee della prima parte del secolo scorso, lo sport diventa uno degli strumenti principali di gestione del consenso, e molte competizioni o gare assumono valenze politiche che vanno ben oltre il risultato sportivo. Con il nazismo in Germani e il fascismo in Italia la questione razziale irrompe pesantemente all’interno di palestre, campi da gioco e piste di gara.
La volontà di dimostrare la superiorità razziale fu il pretesto con cui Adolf Hitler decise di ospitare i Giochi Olimpici del 1936. Il Führer voleva servirsi delle Olimpiadi di Berlino per celebrare la supremazia della razza ariana, e alle gare fu impedita la partecipazione degli atleti tedeschi di origine ebrea. Uomini e donne, che vengono banditi dai loro sport a causa delle proprie origini, perché la loro semplice pratica sportiva e in diversi casi il loro essere veri campioni e vere campionesse contraddiceva le teorie di superiorità razziale dei regimi nazi-fascisti.
In Germania una delle storie più note è sicuramente quella di Johan ‘Rukelie’ Trollmann, pugile tedesco di origini sinti, che da campione dei medio-massimi ridicolizzò il regime nazista sul ring, e morì ucciso nel campo di concenteramento di Neuengamme.
Alfred Nakache era invece un campione di nuoto francese, “il nuotatore di Auschwitz”: ebreo, deportato e riconosciuto come campione di nuoto per il nuotatore c’era la piscina delle SS, una grande vasca che fungeva da riserva d’acqua in caso d’incendio. E lì, nell’acqua sporca che Nakache deve tuffarsi più volte al giorno per recuperare gli oggetti lanciati dai soldati. Pugnali, sassi, monete. L’acqua è gelida d’inverno, una vera e propria latrina d’estate. Nakache sopravviverà, testimonierà e parteciperà alle Olimpiadi del ’48. Con lui nello stesso campo di sterminioVictor ‘Young’ Perez, nato da una famiglia ebrea di Tunisi, campione di Francia di pugilato, ad Auschwitz vincerà una gara contro un peso massimo ariano, per morire nella cosiddetta Marcia della Morte da Auschwitz verso Gleiwitz e Buchenwald: partirono 1368 persone, ne arrivano vive 47.
E ancora, Lili Henoch, forse la più famosa delle atlete tedesche degli anni 20 e 30. Campionessa di pallamano e detentrice di record mondiali nel lancio del disco, nel getto del peso e nella staffetta 4×100. Lili divenne Presidentessa della sezione femminile di atletica leggera dello Berliner Sport Club quasi in contemporanea alla nomina di Hitler come Cancelliere del Reich. Ebrea, venne deportata e fucilata con la madre nel ghetto di Riga nel 1942.
Anche nell’Italia del fascismo, sono molti gli atleti che hanno dovuto confrontarsi con le leggi razziali e il regime di Mussolini. Molti venivano dai ring; il pugilato era forse lo sport più popolare a livello di massa in questa prima parte del 900. E così, se oggi ritrovano spazio nella storiografia ufficiale figure come quella di Leone Jacovacci, italo-congolese campione italiano ed europeo dei pesi medi marginalizzato e ostracizzato dal fascismo, di molti altri le storie sono molto meno note.
Pugili erano anche Primo Lampronti, ferrarese, campione incarcerato in quanto ebreo; Leone Efrati, romano, soprannominato ‘Lelletto’, che nel 1938 a Chicago, lottava per il titolo mondiale dei pesi mosca e sei anni dopo, a soli 31 anni, morirà deportato ad Auschwitz Birkenau. Romano e pugile era anche Lazzaro Anticoli, ‘Bucefalo’ sul ring, nato in una famiglia di religione ebraica, antifascista, morì nell’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma a 27 anni.
Carlo castellani, era invece un famoso attaccante dell’Empoli, antifascista, deportato e fucilato a Mauthausen nel 1944.

L’elenco potrebbe sicuramente proseguire. Molto più lungo potrebbe essere l’elenco di quelli che invece anche nel mondo sportivo si allinearono, per adesione o per opportunismo, per paura o per conformismo, alla politica persecutoria del regime. Non tutti però, e a proposito è ancora importante ricordare storie come quella di Gino Bartali, campionissmo del ciclismo che tra il 1943 e il 1944 percorse molte volte in bicicletta il tragitto fra Firenze e Assisi nascondendo nella canna e nel manubrio documenti falsi e foto che trasportava in Umbria per essere stampati clandestinamente dai tipografi comunisti Luigi e Trento Brizi. O le vicende di un altro Gino, Soldà, alpinista decorato da Mussolini con la medaglia d’oro al valore atletico, entrato in clandestinità dopo l’8s ettembre, partigiano sulle montagne del Veneto con nome di battaglia Paolo.

Come Palestra Popolare, ci sembra importante in occasione di questo 25 aprile di lotta e liberazione, ricordare e provare a leggere la barbarie del fascismo e del nazismo attraverso la lente dello sport.
Perchè troppo spesso sentiamo ancora parlare di una supposta neutralità dello sport, sentiamo ripetere troppe volte che lo sport non è politica, che lo sport è solo sport. Non esiste una scissione fra sport e contesto politico e sociale. Lo sport è anche strumento del potere e insistere sulla sua neutralità, significa di fatto adottare una visione dello sport assoggettata a quella del potere politico ed economico dominante. Lo sport popolare che amiamo e pratichiamo è esattamente il contrario; non è neutrale, è partigiano perché odia l’indifferenza; è antifascista, antirazzista e antisessista, perché vogliamo essere antidoto allo sport che divide e discrimina, allo sport che impone il raggiungimento del risultato individuale ad ogni costo, a scapito della crescita collettiva.
Il nostro sport è uno sport resistente e dal basso, che ha però l’ambizione di vincere la sfida  e di ribaltare il banco anche quando i giochi sembrano fatti, come quando ad esempio l’ideologia razzista del terzo reich fu sbeffeggiata a Berlino nel 1936 dall’atleta afro-americano Jesse Owens, protagonista indiscusso e vincitore di 4 medaglie d’oro nei giochi che dovevano celebrare la superiorità ariana.