Armi e frontiere: come fare cassa sulla/e crisi. 

E’ passato poco più di un mese dall’invasione Russa dell’Ucraina e la guerra è ancora in corso.

Gli Stati nazionali europei e gli USA, sempre più parte attiva del conflitto, condannano la Russia di Putin, stabilendo sanzioni sempre più salate e inviando armi che non faranno che prolungare i combattimenti, incrementare il clima di odio tra popolazioni, e rendere la pace sempre più lontana.

Gli interessi economici dietro questo conflitto sono molteplici: i grandi colossi del settore energetico e degli armamenti si stanno sfregando le mani di fronte alla crisi economico-umanitaria-ecologica che sta accadendo.

Il 16 marzo 2022 la Camera dei Deputati ha approvato a larghissima maggioranza (391 voti favorevoli su 421 presenti, 19 voti contrari) un ordine del giorno collegato al cosiddetto “Decreto Ucraina”, proposto dalla Lega Nord e sottoscritto da deputati di Pd, Fi, Iv, M5S e FdI, che impegna il Governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2% del Prodotto lnterno Lordo. Nella parte dispositiva del testo approvato si legge come tale risultato dovrebbe essere raggiunto “predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione” mentre nell’immediato si debba agire per “incrementare alla prima occasione utile il Fondo per le esigenze di difesa nazionale”.

L’indicazione del 2% del PIL in ambito NATO deriva da un accordo informale del 2006 del consiglio dei Ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles (obiettivo da raggiungere entro il 2024), in cui si è anche indicata una quota del 20% di tale spesa da destinarsi ad investimenti in nuovi sistemi d’arma. Il governo sembra voler procedere con la fiducia al decreto che porterebbe la spesa bellica italiana da 25 miliardi l’anno (68 milioni di euro al giorno) a 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno). Soldi pubblici che passeranno direttamente nelle tasche dei privati, alla faccia del libero mercato. Soldi pubblici che non si trovano quando si tratta di finanziare la Sanità, la Scuola e tutti quei servizi pubblici di cui avremmo così bisogno. Sia detto per inciso che, sebbene la pandemia non sia ancora finita,Draghi ha previsto un taglio alla spesa sanitaria di 6 miliardi di euro.

Quale momento migliore, se non un conflitto alle porte dell’Europa, per giustificare questo ennesimo asservimento alle richieste della NATO?

L’industria bellica italiana è caratterizzata da una struttura oligopolistica in cui poche grandi aziende si spartiscono l’enorme rendita derivante dallo sviluppo e dalla vendita di tecnologie di sorveglianza, mezzi militari e armi.

Nel quinquennio 2017-2021 l’Italia ha incrementato del 16% le quote delle armi esportate all’estero, occupando il 6° posto nella classifica 2021 degli esportatori internazionali di armamenti. Il 63% delle esportazioni di armi dall’Italia sono state dirette verso i Paesi del Medio Oriente (Egitto, Turchia e Kuwait in cima alla classifica).

In Piemonte operano cinque grandi aziende internazionali: Leonardo, Avio Aero, Collins Aerospace, Thales Alenia Space, ALTEC. Le partnership che questi attori sviluppano con altri importanti settori dell’industria 4.0 estendono l’area di influenza dell’industria bellica attraverso una ragnatela in cui è centrale la dualità civile-bellico. La produzione di armamenti è strettamente legata alla ricerca e allo sviluppo tecnologico nell’ambito della propulsione ibrido-elettrica,dell’intelligenza artificiale e dai big data, del volo autonomo e dei sistemi di monitoraggio e di ausilio per i piloti in situazioni ambientali critiche. Non è un caso che la città di Torino, che ospita le sedi di Leonardo, Avio Aero, thales Alenia Space, sia uno dei centri principali per la produzione e la ricerca bellica.

La candidatura della città ad ospitare la sede di un acceleratore d’innovazione nel campo della Difesa e l’ufficio regionale per l’Europa del Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic (D.I.A.N.A) conferma l’importanza del settore bellico sul territorio Torinese. A promuovere il progetto per la creazione di una rete federata di centri di sperimentazione e acceleratori d’innovazione è la NATO che mira ad aumentare la propria influenza sostenendo economicamente “start-up” in grado di sviluppare dispositivi necessari a preservare la superiorità tecnologica e facilitando la cooperazione tra settore privato e realtà militari”.

In questo contesto il Politecnico di Torino rappresenta un crocevia nevralgico dove si incontrano armamenti, aerospazio e tecnologie di sorveglianza.

Il 13 aprile 2021 viene firmato un accordo tra Aeronautica militare, Politecnico e Leonardo in materia di ricerca e innovazione. L’obiettivo di questo patto è lo “sviluppo di una piattaforma digitale collaborativa in grado di mettere a disposizione degli operatori nuovi strumenti di apprendimento e di supporto alle attività operative sul campo, tali da rendere fruibili in modo semplice ed efficiente una vasta quantità di contenuti tecnici in formato digitale, anche attraverso strumenti di realtà virtuale/aumenta e in modalità on demand”.

A dicembre 2021, durante l’Aerospace & Defend meeting, vetrina che ogni due anni riunisce a Torino i colossi del settore, viene presentato il progetto della Città dell’aerospazio, i cui promotori principali sono Leonardo, Politecnico di Torino, Regione e Comune, accanto a Camera di commercio di Torino e Distretto dell’aerospazio, con il sostegno di Api e Unione Industriali. Nell’area compresa tra corso Marche e corso Francia, in uno spazio di circa 200 mila mq, sorgeranno laboratori didattici, insediamenti produttivi, aree commerciali, residenze per studenti e spazi per start-up che affiancheranno la produzione e la ricerca di Leonardo, Altec e Thales Alenia.

Questo caso mostra bene come stia diventando sempre più pericoloso il ritornello volto a promuovere lo sviluppo di sinergie tra industria e mondo accademico. In questo modo un mare di soldi pubblici, detenuti da Stato, Regione, Comune e Università, vengono regalati all’industria delle armi per comprarsi un immenso pezzo di città e costruirci una cittadella della guerra.

Mentre le grandi industrie private influenzano sempre di più la didattica e la ricerca universitaria, indirizzandola verso lo sviluppo di armamenti e tecnologia di sorveglianza, il Politecnico, lungi dal difendere la libertà della ricerca, si fa bello di questo legame con le imprese spacciandolo come una vantaggiosa opportunità, come un valore aggiunto.

In questo senso torna utile che le stesse imprese operino anche nel settore civile. Collaborare con un’azienda dell’high-tech è “cool” e apre prospettive lavorative in settori all’avanguardia…basta tener nascosto il vero obiettivo delle tecnologie che aiutiamo a sviluppare. Ma se al posto di usare inglesismi e giri di parole, il Politecnico parlasse di morte e distruzione come obiettivi delle proprie proposte didattiche e accordi si scatenerebbe lo sdegno collettivo.

Perchè di fatto è così: il politecnico supporta chi arma la guerra attraverso lo sviluppo e la ricerca di tecnologie innovative. Mette a disposizione dell’industria bellica il proprio sapere e la propria manodopera altamente specializzata: studenti e studentesse, ricercatrici e ricercatori, precari e precarie dell’accademia …con la bandiera della pace sventolata dalla finestra della sede principale di corso Duca degli Abruzzi.

Il Politecnico, infatti, fa parte del Network delle università per la pace e con un videomessaggio del rettore, Guido Saracco, ha voluto ribadire l’augurio per la fine dalla guerra in Ucraina e l’impegno ad accogliere “colleghi e colleghe colpiti dal conflitto e per consentire loro di lavorare in un ambiente sicuro, ci stiamo impegnando per sostenere allo stesso modo studenti e studentesse vittime della guerra”. Oltre l’ipocrisia, queste parole ci aiutano a seguire il filo che collega armi e frontiere a partire proprio dal Politecnico.

Lo scorso dicembre l’università ha siglato un accordo con l’agenzia europea Frontex a cui è affidato il controllo e la gestione (militare) delle frontiere esterne dello spazio Schengen e dell’UE. Il contratto prevede la collaborazione tra DIST (Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio) del Politecnico di Torino e dell’Università di Torino, l’Associazione Ithaca e Frontex per la produzione di mappe cartografiche del mondo attraverso dati open source, e quindi di accesso pubblico, ma anche dati raccolti durante le attività di pattugliamento che l’agenzia opera alle frontiere. L’obiettivo per Frontex è avere degli strumenti molto precisi per prevedere e analizzare i flussi migratori che siano di supporto alle operazioni repressive di controllo e respingimento.

Il fatto che questi strumenti vengano forniti da un dipartimento di un’università pubblica è gravissimo, ma in linea con quanto analizzato prima riguardo gli armamenti.

Le responsabilità di Frontex di fronte alle morti dei e delle migranti e alle violenze contro tutte le persone che cercano di attraversare i confini dal Mediterrano, dalla rotta balcanica, dalla Bielorussia, dalla Polonia oppure da Ceuta e Melilla in Spagna sono sotto gli occhi di tutti e tutte. L’UE non è intenzionata a negoziare lo smantellamento di Frontex anzi, dei 23 miliardi approvati alla voce di bilancio “migrazioni e controllo delle frontiere” (raddoppiata rispetto al periodo precedente) ben 5,6 spetteranno proprio a Frontex (la quota più alta rispetto alle altre agenzie dell’UE). I soggetti con i quali Frontex sviluppa delle collaborazioni sono soprattutto aziende del settore degli armamenti o delle tecnologie per la sorveglianza. Intelligenza artificiale, droni, e-gate, riconoscimento biometrico oltre ad un esercito di agenti di frontiera destinato a raggiungere diecimila unità entro il 2027 per combattere la guerra contro i migranti: a fornire tutta questa potenza di “fuoco” ci sono le stesse aziende che armano le guerre in giro per il mondo e a pagare invece, ancora una volta, è lo Stato con soldi pubblici.

Nel 2021, Leonardo ha vinto l’appalto di 6,9 milioni di euro per la fornitura annuale al ministero degli interni di un drone per il monitoraggio delle rotte migratorie nel Mediterraneo. Il velivolo comunicherà i dati raccolti in tempo reale al Centro nazionale di coordinamento del Sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Ncc/Eurosur) in costante comunicazione con Frontex. Gli stati dell’UE, ben contenti che Frontex diventi sempre più potente sui confini, non accennano a allentare la morsa repressiva contro chi non ha i documenti.

In Italia, la burocrazia asfissiante che constringe in situazioni precarie immigrati/e in attesa di rinnovo e le violenze negli hotspot e CPR hanno reso sistemico il razzismo. Tutto questo vale soprattutto per chi proviene dalle rotte non attenzionate dai media, per i quali le ragioni delle migrazioni devono essere meticolosamente accertate e troppo spesso non riconosciute.

Il conflitto ucraino ha svelato nuovamente l’inconsistenza dei valori di accoglienza e fratellanza tra i popoli.

Mentre i civili continuano a scappare, sono ormai più di 4 milioni le persone che hanno lasciato l’Ucraina, il perdurare della guerra aumenta il pericolo per chi deve ancora oltrepassare il confine. I bombardamenti, infatti, continuano incessanti e anche il confine occidentale ucraino è diventato teatro di guerra.

I governi europei, indossati gli abiti misericordiosi, hanno spalancato le braccia ai profughi ucraini, ma nel frattempo continuano a bloccare e respingere migranti provenienti dal sud e dall’est del mondo.

Chi scappa da questa guerra sono “profughi veri”, diversamente da chi arriva in Europa dalla rotta Balcanica o attraverso il Mediterraneo. Ma le odiose divisioni tra vittime si scoprono presto anche qui: se scappi dall’Ucraina ma la tua pelle non è bianca, le tue ragioni non sono così valide e l’accoglienza non è garantita. Una solidarietà fasulla, che dietro alla maschera della “fratellanza” nasconde la feroce smorfia di un nuovo nazionalismo Europeo, bianco e cattolico, che se cavalcato avrà come conseguenze l’inasprirsi delle tensioni ai confini ed il riarmo europeo, con il concreto rischio di un’escalation del conflitto fino a dimensioni terribili da immaginare. Non è un caso che i neofascisti abbiano scordato per un attimo gli slogan di “prima gli italiani” e “guerra totale”, per riscoprirsi (virilmente) amorevoli e solidali con i fratelli ucraini: il nuovo slogan diventerà allora “prima gli europei”, anche se sarebbe meglio dirlo per esteso “prima i padroni europei”. Come già sapevamo, e come stiamo vedendo in queste settimane, l’economia di guerra, guerreggiata o meno, favorisce soltanto gli interessi degli oligarchi (poco importa la nazionalità), che trovano nei nazionalisti di ogni campo, come gli Aliud nostrani, utili idioti da far combattere per i loro interessi.

Il 22 aprile ci muoveremo in bici dal Politecnico al CPR di Torino per manifestare ancora un volta le responsabilità di chi vuole fare cassa sulla/e crisi fomentando odio e producendo morte.