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Sabato 27 giugno 09
Dj K.N.D. + Nadya + Truffa + guests
100% hip hop
Si può vivere per anni con una donna di sinistra, ma di sinistra sinistra, e poi votare per Silvio Berlusconi?
Per esser precisi: si può vivere con una donna di sinistra, votare per
Berlusconi e sperare che la vita prosegua come se niente fosse
accaduto? La domanda non è peregrina, e infatti Gianluca Rossi, e Daniele Giometto ne hanno tratto Ho ammazzato Berlusconi
(Italia, 2oo8, 88′), piccola opera indipendente, tanto nel senso della
produzione quanto nel senso delle idee. Sulla scorta di un libro di Andrea Salieri, il film racconta dell’ormai lontano 2oor; appena dopo le elezioni. In casa di Matteo (Alberto Bonanni) l’atmosfera è pesante. La sua Livia (Sabrina Paravicini) è in stato di agitazione. Riunita in salotto con le amiche, immagina improbabili contromisure. Dalla parete le osservano Che Guevara, nel ruolo storico, e Dario Fo,
nel ruolo di un caro parente. D’altra parte, così vuole la democrazia:
Berlusconi ha vinto, Berlusconi governa. Anzi, già che c’è, appare
anche in televisione, promettendo sfracelli uno dopo l’altro:
ovviamente, dal punto di vista di Livia.
Quanto a Matteo, lui preferisce chiudersi in un decoroso silenzio, che
abbia votato per il nuovo capo del governo, come sostiene la sua
compagna, o che solo si sia distratto e non abbia nemmeno votato. In
ogni caso, non è di sinistra sinistra. Come dirà più tardi a un
carabiniere, nella sua vita gli è capitato di votare un po’ per tutti,
e mai con entusiasmo. Ma torniamo al salotto rivoluzionario.
Disgustata, Livia se ne va di casa. In una notte buia e tempestosa, e
dal cielo le si abbatte in testa un’ala d’aereo. Ma ce n’est qu’un début, come si diceva una volta. Solo che allora s’aggiungeva continuons le combat, mentre
adesso Matteo non fa che precipitare verso il baratro. In quella stessa
notte buia e tempestosa, investe con l’auto un tale, che però non
muore. Muore invece quando lui, per errore, gli dà un colpo con il
crick. Allora, se lo porta a casa, lo ripulisce un po’ e scopre il
fatto: si tratta di Silvio Berlusconi, casualmente a passeggio sotto
l’acqua battente. Per rispetto, lo lava, lo pettina, lo trucca e gli
mette addosso quel che si trova in casa: una maglia dell’Inter. Molto
altro si potrebbe aggiungere, e infatti molto altro aggiunge il film.
Per esempio, che pur essendo morto e nel freezer di Matteo, Berlusconi
continua ad apparire in televisione. Oppure, che Matteo lo seppellisce
in giardino, mettendogli in bocca dei semi d’arancio, giusto per farlo
crescere e fruttificare. Ma qui basterà ricordare che alla fine nessuno
si preoccuperà della scomparsa del capo del governo. Il solo che invece
ne soffrirà, come per un fratello, sarà proprio Matteo. Se la politica
è questo – un uomo che parla in tivù, anche se è morto -, allora non
c’è più speranza. Al dunque, che cosa resta da fare, se non scavarsi
una fossa di fianco a quella di Berlusconi, mettersi in bocca dei semi
e poi ricoprirsi di terra? Almeno resta la speranza di dar buoni
frutti, prima o poi.
Da Il Sole 24 ore
Giustamente premiato ai Golden Globe, un piccolo gioiello da tutti acclamato.
Il Manifesto: …un lavoro duro e impressionante…
El Pais: …oltre ad avere un talento straordinario, Ari Folman ha un ammirevole coraggio.
Il Messaggero: Il risultato è un film che cambia tutto il modo di fare cinema.
Corriere della Sera: “Valzer con Bashir” si avvale di animazioni più realiste delle immagini reali.
Il Tempo: …un film di animazione più reale, e realistico, di un documentario dal vero.
Il Giornale: …un cartoon per adulti, toccante e mai fazioso, quasi un viaggio psicoanalitico dentro un’amnesia
individuale e collettiva insieme.
Panorama: Un
film d’animazione che non è un cartoon, un racconto di guerra che è un
viaggio nella memoria, un documentario che evoca fantasmi…
Variety: …un qualcosa di speciale, strano, originale e potente.
The Times: …un film potente, pacifista, fortemente personale…
Grande
successo (di critica e di pubblico) all’ultimo Festival di Cannes, un
terribile atto d’accusa verso ogni guerra che commuove coinvolge
indigna angoscia… e il tutto con un ammirevole eclettismo di
tecniche impiegate – secondo i casi animazione classica,
tridimensionale, flash ed effetti speciali – e un’eccezionale
creatività del montaggio (Repubblica).
“Valzer con Bashir” mostra con coraggio e
senza falsi pudori come ogni conflitto non sia altro che un insieme di
orrori, di paura, di disperazione, di vigliaccheria, di prevaricazione,
di ferocia, di traumi, di disumanizzazione, di mostruosità senza senso…
Di difficile collocazione per la coesistenza di stili diversi, il
film mescola abilmente il documentario politico e l’autobiografia, il
genere guerra e la psicoanalisi, la trascrizione di sogni – fantasmi,
reminiscenze – e una splendida animazione grafica (Le Monde): in effetti nel lavoro di Ari Folman non sai se ammirare maggiormente la tecnica o il contenuto.
Nel fare emergere la memoria di una pagina buia della sua storia
personale e di quella del suo paese, il regista israeliano mostra come
realtà e immaginazione siano facilmente mescolabili: “Valzer con Bashir”
è, e al contempo non è, un documentario e una fiction (mirabilmente
fusi realismo surrealismo onirismo). Un’opera emozionante come poche,
innovativa nel modo di presentare le cose mediante tavole disegnate ed
effetti digitali, attuale più che mai oggi: una narrazione
psicoanalitica che costituisce un salutare pugno nello stomaco dello
spettatore, dall‘inizio alla fine.
Straziante e sconvolgente il finale. Si esce dalla proiezione incapaci di parlare.
Del suo film (ci son voluti ben quattro anni per realizzarlo!), Ari Folman ha detto: Il
messaggio è che ogni guerra è sbagliata. Dovunque nel mondo. Non è come
nei film americani, non c’è alcuna gloria nella guerra. Di solito i
giovani che guardano i film di guerra dicono ‘si, è dura là fuori, ma
c’è comunque un grande senso di amicizia tra i soldati… voglio esserci
anche io’… spero che con questo film dicano: ‘non vorrei mai essere lì’.
Giustamente Dario Arpaio, commentando la pellicola, ha scritto:
Nessuno vince mai una guerra. Nei sopravvissuti restano solo immagini a due colori e qualche incubo ricorrente…
Per non dimenticare che la pietà non va alla guerra.
Un vero peccato che il film venga distribuito in così poche sale.
La
figura di Milk è quella del condottiero, dell’ispiratore, che con le
sue ostinate e coraggiose battaglie politiche, che l’hanno portato
all’orribile morte avvenuta per omicidio nel 1978, è diventato icona di
un intero movimento. Van Sant sceglie di mettersi al suo servizio,
lascia che a parlare sia la sceneggiatura lineare, quasi scolastica,
scritta dal trentaquattrenne Dustin Lance Black
che ci racconta non solo dei traguardi di una vita, ma anche delle
rotte da essa segnate. Senza mai abbandonarsi al ricatto emotivo, tanto
che in certi passaggi si può addirittura avvertire una certa freddezza,
Milk si fa commovente quando rivela il messaggio più importante
dietro il racconto biografico: stringetevi nella speranza e continuate
a lottare. Se della meraviglia si può trovare nel film, è tutta nello
spirito di solidarietà che tiene insieme i personaggi, negli abbracci,
nell’aggregarsi per andare alla conquista un comune obiettivo: il
diritto all’esistenza, la possibilità di uscire allo scoperto senza
vergognarsi di sé stessi, senza il timore di venire schiacciati
dall’ignoranza altrui. L’amore che fa vibrare il film è una
resurrezione, ci restituisce quello spirito che tiene insieme gli
individui, quella fiducia che è essenziale riporre nell’altro per
ottenere il proprio riconoscimento. Trovandosi a maneggiare personalità
dal grande fascino, il regista può approfondire o limitarsi a
pennellare, con grande agilità, i personaggi, dotando ognuno di essi di
una dignità che si fa essa stessa significante.
Talvolta
ridondante nel suo sviluppo, il film di Van Sant ha la capacità di
ritagliarsi, oltre la ‘cosa pubblica’, dei momenti di grande tenerezza.
Milk è stato un personaggio che ha dovuto lottare per diventare
pubblico, compromettendo inevitabilmente il privato. Chi gli stava
accanto non ha retto, schiacciato dalla distanza del quotidiano, ma
Milk ha avuto la forza di non impantanarsi nella solitudine, andando
dritto per la sua strada, nel suo sogno di sconfiggere i pregiudizi che
spesso si cibano dei soliti, agghiaccianti deliri cattolici secondo i
quali le fiamme dell’inferno sono pronte ad ardere quella diversità che
mette in pericolo l’idea di Famiglia così cara alla Chiesa. Non serve
neppure esprimere un giudizio su certe idiozie, così il film invece di
schernire si limita a mostrare la realtà con vocazione
documentaristica, compresa quindi la sua degenerazione, diventando in
questo modo opera di ampio respiro piuttosto semplice da accogliere. Sean Penn
si cuce addosso il personaggio di Harvey Milk, lavora con grande
meticolosità sulla gestualità e sulla voce, sulla mimica facciale e
sulle urgenze che muovevano il personaggio-simbolo che è chiamato a
interpretare. L’attore californiano non si risparmia e si regala al
pubblico anche nei baci che è disposto a scambiarsi con un James Franco
mai così bravo, al quale basta uno scambio di sguardi nel finale per
riscattare un’intera carriera. Proprio quel finale ci abbaglia, con le
mille luci che si alzano al cielo, e le ultime parole di Milk che
diventano per lo spettatore un lungo brivido, una lacrima che muore per
creare nuova vita, una carezza calda nella quale accucciolarsi, un
invito che va colto, custodito, e condiviso. Uscire allo scoperto e
aprirsi alla speranza. ‘La speranza di una vita migliore, la
speranza di un domani migliore. Perché senza speranza la vita non vale
la pena di essere vissuta.‘
Ernesto "Che" Guevara, 1928-1967 |
Si può raccontare la vita di Ernesto Guevara senza fare i conti con
il mito del «Che»? La sfida sembrerebbe impossibile: anche un film come
I diari della motocicletta, che ne raccontava la giovinezza
argentina, non riusciva a tenere a freno la contagiosa esuberanza del
protagonista. Affrontando invece i due momenti cruciali della vita di
Guevara, la rivoluzione cubana prima e la guerriglia in Bolivia poi in
un mega-film di oltre quattro ore che esce in due parti (adesso Che-L’argentino e a maggio Che-Guerriglia),
il regista Steven Soderbergh sembra essersi fatto guidare soprattutto
dalla voglia di raffreddare la materia e di affrontare con gli
strumenti della ragione quello che di solito si racconta con
l’entusiasmo del militante.
Caldeggiato fortemente dall’attore Benicio Del Toro (che si cala nei
panni di Guevara con sorprendente rassomiglianza) e dalla produttrice
Laura Bickford, il progetto del film ha cominciato a prendere forma più
di dieci anni fa, nel 1996, ma è diventato qualche cosa di concreto
solo nel 2005, dopo che la sceneggiatura è stata affidata a Peter
Buchman. È dal suo lavoro e da quello di Soderbergh che nasce l’idea di
privilegiare due soli momenti di tutta la lunga e avventurosa vita del
«Che» giocando continuamente al contrappunto: Cuba contro Bolivia ma
anche, all’interno della prima parte, teoria contro azione, utopia
contro (dura) realtà, rivoluzione contro (o a fianco di) politica.
Questa operazione non è evidentemente senza conseguenze: da una
parte permette al film di avere un andamento il meno hollywoodiano
possibile, lontanissimo dall’epicità finto-romantica con cui il cinema
americano ha spesso raccontato rivoluzioni e rivoluzionari (basterebbe
pensare all’orrendo Che! di Fleischer con Omar Sharif nei panni
di Guevara). E dall’altra offre al film la possibilità di «distaccarsi»
dalla materia raccontata per trasformare la storia in strumento di
(auto)riflessione, recuperando certi insegnamenti godardiani
sull’intreccio tra finzione cinematografica e inchiesta giornalistica
(non a caso Questa è la mia vita era uno dei modelli a cui Soderbergh si è ispirato).
Benicio Del Toro, classe 1967 |
Ecco perché Che-L’argentino gioca molto col montaggio,
perdendo di vista lo svolgimento cronologico delle azioni e invece
giustapponendo momenti della visita del «Che» alle Nazioni Unite nel
1964 a episodi della guerriglia sulla Sierra Maestra cubana del 1957/58
a momenti addirittura precedenti, come l’incontro tra Guevara e Fidel
Castro in Messico nel 1955. In questo modo frasi e dichiarazioni più
«programmatiche» (come erano le risposte ai giornalisti americani o i
punti salienti del suo discorso all’Onu contro l’imperialismo e la
sudditanza degli Stati sudamericani) trovano un riscontro immediato con
le scelte concrete fatte durante la guerra rivoluzionaria, anche loro
mostrate non per la loro forza epica ma piuttosto per quello che
possono «insegnare» e «dimostrare».
Così fa una certa impressione sentir dire a una giornalista
newyorkese che la prima qualità di un rivoluzionario è «l’amore» e
subito dopo vedere la decisione di abbandonare un compagno alle sevizie
dei soldati di Batista pur di non farsi scoprire, scelta che si spiega
solo capendo che quell’«amore» non va inteso in senso cristiano ma
rivoluzionario, perché il sacrificio di un militante giustifica la
possibilità della sopravvivenza del gruppo. O ancora, prima
dell’attacco alla caserma di El Ulvero, il discorso sulla inevitabile
vittoria dei rivoluzionari di fronte ai mercenari che sembra essere
contraddetto dai morti che i ribelli lasciano sul campo ma che finisce
per essere avvalorato dalla conquista della postazione. Ogni scena,
cioè, prende valore per quello che spiega e insegna sul percorso
rivoluzionario e non per la forza emotiva che può avere.
È per questo che il film andrebbe visto nella sua interezza di
quattro ore, perché la seconda parte funziona da contrappunto alla
prima e molte scene della prima rimandano alla seconda o trovano lì la
loro «conclusione» (come il discorso sui sedicenne che a Cuba non
possono partecipare alla rivoluzione e in Bolivia sì, salvo poi
scoprire che i primi si riveleranno dei veri rivoluzionari e i secondi
tradiranno). Ma la distribuzione ha leggi che a volte vanno contro a
quelle dei film e in questo modo Che-L’argentino finisce per pagare delle colpe che non sono del tutto sue.
Nella
sua unità/complessità sarebbe stato più chiaro il percorso di
Soderbergh. Così invece si rischia di accentuare troppo una scelta di
stile che sembra solo «contro» (contro il mito del «Che» ma anche
contro l’epicità troppo programmatica di certo cinema hollywoodiano) e
meno «a favore» (di un soggetto indubbiamente originale e lontano dalle
mode).
Paolo Mereghetti
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L’Italia:
– paese firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951 sui
rifugiati, la pietra miliare del diritto internazionale dei rifugiati
– continua ad essere l’unico paese dell’Unione Europea sprovvisto di una legge organica sull’asilo, con gravi conseguenze sulla condizione di rifugiati, titolari di protezione umanitaria e richiedenti asilo.
Intanto nel 2008 sono state presentate circa 30mila domande di asilo politico (circa il 50% ha avuto riconosciuta una forma di protezione), un numero che ha portato l’Italia ad essere il quarto paese al mondo per numero di richieste, a fronte di un sistema SPRAR(il programma di assistenza decentrato per i richiedenti asilo) che garantisce 6000 posti ogni anno (3000 circa ogni 6 mesi, che è l’effettiva durata di un progetto).
Basterebbero questi dati a mettere in luce un sistema assolutamente inefficiente a livello nazionale, influenzato anche da alcune normative internazionali come la convenzione di Dublino, che legano il rifugiato al Paese nel quale ha presentato la domanda: per molti e molte rifugiat* l’Italia sarebbe semplicemente un passaggio verso altri paesi europei.
Unitamente a tutto questo ci sono poi le grandissime responsabilità dei livelli di governance locale, incapaci di garantire i diritti minimi di cittadinanza: a Milano la risposta è stata la repressione e la marginalizzazione dei bisogni espressi con l’occupazione di Bruzzano;
a Torino prima i giochi da politicanti di palazzo della giunta
(Assessore alle politiche Sociali -Marco Borgione- in testa) e della Prefettura tutti volti a schivare le proprie responsabilità reali e poi la violenza e le intimidazioni delle forze dell’ordine.
E così ogni volta che l’esasperazione, la stanchezza, le speranze deluse e soprattutto la rabbia porta giovani rifugiat* ad alzare la testa, rompendo quell’aura di compatibilità in cui il senso politico comune li vorrebbe confinati, i media parlano del "caso", scoprono che per stare in mezzo ad una strada senza alcun diritto riconosciuto un immigrato non deve per forza essere un clandestino e le istituzioni nazionali e locali dimostrano tutta la loro ipocrisia condita da un misto di non-volontà ed incapacità di dare risposte concrete ai bisogni essenziali che questi uomini e queste donne pongono.
Non ci interessa distinguere tra chi ha un documento e chi invece no, consapevoli che la crisi e il razzismo delle istituzioni colpiscono tutti e tutte allo stesso modo, e il permesso di soggiorno o l’asilo politico rappresentano esclusivamente dei diritti di carta.
Vediamo nel momento di piazza del 23/5 a Milano un primo possibile passaggio di ricomposizione delle istanze di lotta e liberazione dal razzismo e dallo sfruttamento verso i migranti. Dentro questo corteo, vogliamo però provare a costruire uno spezzone che provi a tenere insieme, a far parlare nelle diverse lingue d’origine uomini e donne rifugiati, protagonisti di diverse lotte sui territori che però parlano tutte lo stesso linguaggio, che è quello di una dignità negata che vuole emergere con tutta la sua forza.
CASA LAVORO RESIDENZA
CONTRO IL PACCHETTO SICUREZZA
CONTRO LA NUOVA POLITICA GOVERNATIVA DEI RESPINGIMENTI IN MARE
CONTRO IL RAZZISMO
PER I DIRITTI DI CITTADINANZA
PER LA SOLIDARIETÀ ATTIVA CON LE LOTTE DI MIGRANTI E RIFUGIAT*
Il razzismo istituzionale colpisce duro: il Governo Berlusconi, con la Lega Nord in prima fila e buona parte dei media, hanno dato il via ad una campagna di odio che si indirizza prevalentemente contro i “clandestini” ma criminalizza tutti i migranti giustificando il loro sfruttamento. La proposta di un “contributo” per il rinnovo dei permessi – che si aggiunge al furto dei contributi previdenziali e pensionistici che non possono essere ritirati – mostra che il salario dei migranti è considerato risorsa sempre disponibile. Si tratta di denaro che, con quello di tutti i lavoratori, pagherà nuovi Centri di identificazione ed espulsione. E mentre il razzismo istituzionale si legittima sul corpo delle donne facendo strada a ronde e linciaggi popolari, la violenza continua nelle case, i tagli alla scuola e al welfare pretendono di rinchiudere tutte le donne tra le mura domestiche, riservando alle migranti solo un posto da “badanti”. Per questo è ora di scegliere DA CHE PARTE STARE.
La crisi mostra spietatamente che lo sfruttamento non conosce differenze: tutti hanno mutui e affitti da pagare, l’incubo del giorno dopo. Il razzismo istituzionale impedisce però ai migranti di sperare persino nelle già povere “misure anticrisi”. Ammortizzatori sociali, piani edilizi, bonus bebè non li riguardano: devono solo pagare, e farlo in silenzio. L’abolizione del divieto di denunciare i migranti irregolari che si rivolgono alle strutture sanitarie è l’espressione più meschina di una strategia che vuole produrre una clandestinità politica oltre che legale. Impedire di certificare la nascita dei figli e delle figlie dei migranti senza documenti pone un’ipoteca sulle prossime generazioni. Per questo è ora di scegliere DA CHE PARTE STARE.
Contro i colpi duri della crisi e del razzismo istituzionale, la risposta deve essere altrettanto forte. È ora di scegliere DA CHE PARTE STARE, e tutti e tutte siamo chiamati in causa. Le organizzazioni autonome dei migranti, che in questi anni hanno tenuto alta la lotta contro la legge Bossi-Fini, le associazioni e i movimenti antirazzisti, i sindacati, tutti siamo tenuti a schierarci contro questa politica del razzismo. Fino a quando i migranti saranno esposti al ricatto, tutti saranno più ricattabili. È tempo di ritessere il filo della solidarietà, di avviare in ogni territorio una nuova grande azione concreta di lotta capace di opporsi a un attacco alle condizioni di vita che colpisce prima di tutto i migranti, ma non solo i migranti.
È ORA DI STARE DALLA PARTE DEI MIGRANTI E DELLE MIGRANTI. Per questo, facciamo appello a tutti i lavoratori, le lavoratrici, gli studenti e le studentesse, le associazioni e i sindacati, affinché siano parte di questa lotta. Con questo appello inizia il percorso per una mobilitazione che arrivi a una grande manifestazione nazionale il 23 maggio a Milano, una città del nord dove più evidenti sono le caratteristiche dell’offensiva del razzismo istituzionale e più marcati gli effetti della crisi. Affinché gli effetti della legge Bossi-Fini non amplifichino quelli della crisi, NOI CHIEDIAMO:
– che i permessi di soggiorno siano congelati in caso di licenziamento, cassa integrazione, mobilità, sospensione dal lavoro;
– che i migranti, così come tutti quei lavoratori che non usufruiscono di ammortizzatori, partecipino alla pari di ogni altro lavoratore a ogni misura di sostegno e vedano salvaguardati i contributi che hanno versato;
– che i migranti e tutti i lavoratori possano rinegoziare i loro mutui in caso di perdita del lavoro; il blocco degli sfratti per tutti i lavoratori e le lavoratrici nella stessa condizione, perché sappiamo che un migrante senza contratto di locazione è un lavoratore clandestino;
– il mantenimento del divieto di denuncia dei migranti senza documenti che si rivolgono alle strutture sanitarie e della possibilità di registrare la nascita dei loro figli;
– il ritiro della proposta di un permesso di soggiorno a punti e di qualunque tipo di “contributo” economico, sia esso di 80 o di 200 €, per le pratiche di rinnovo dei permessi.
– il blocco della costruzione di nuovi centri di identificazione ed espulsione, l’utilizzo dei fondi stanziati per iniziative a favore di tutti i lavoratori colpiti dalla crisi, la cancellazione di ogni norma che preveda l’allungamento dei tempi di detenzione, la chiusura dei CIE.
– la garanzia di accesso al diritto d’asilo e il blocco immediato dei respingimenti alla frontiera in attesa della promulgazione di una legge organica in materia.
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