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Comunicato 25 aprile 2010

Anche quest’anno abbiamo deciso di festeggiare il 25 aprile nel nostro
quartiere con il quartiere. È il terzo anno consecutivo che, oltre al
corteo, organizziamo una festa in strada nell’area pedonale di via Di
Nanni per allargare il più possibile al territorio il portato di memoria
e lotta che è per noi il significato più profondo del 25 aprile. Via Di
Nanni non è certo un luogo casuale. Dare vita ad una festa della
liberazione in San Paolo significa fare innanzitutto un recupero della
storia e del codice genetico di questo quartiere: un quartiere
nevralgico della resistenza torinese al nazi-fascismo; un quartiere che
nella figura e nella storia di Dante Di Nanni sintetizza al tempo stesso
la brutalità dell’ideologia fascista e la voglia di vivere e lottare di
tutti quelli e quelle che hanno combattuto per la Liberazione.
Un
significato ancora più forte ha per noi il 25 aprile quest’anno: proprio
nel 2010 cade il 65° anniversario della Liberazione e certo il clima
politico è sempre più peggiorato. Clima politico sempre più razzista,
omofono e violento che è sfociato nell’elezione della Lega Nord a capo
di questa regione e la sua escalation nella maggior parte delle regioni.
Emblematica è la situazione delle e dei migranti. Il pacchetto
sicurezza, le leggi discriminatorie da molti definite razziali che
colpiscono chi un permesso di soggiorno non ce l’ha, costringono uomini e
donne ad essere invisibili, a nascondersi e gli negano anche i più
elementari diritti umani. I dispositivi di controllo attuati dalle
governance sempre più “efficienti” e restrittivi delle libertà di tutte e
tutti noi. La perdita di diritti delle e dei migranti rischia di
tramutarsi in perdita di diritti per tutte e tutti.

La crisi
la sentiamo e la viviamo sulla nostra pelle tutti i giorni.
Licenziamenti, cassa integrazione, la sempre più difficoltà ad arrivare
alla fine del mese e il sempre più alto numeri di sfratti in città.
Questo clima ci deve spingere ad essere uniti, ad essere solidali ed il
nostro quartiere lo è. Borgo san Paolo ha nel suo dna la memoria della
resistenza, delle lotte, la solidarietà ed è per questo che invitiamo
tutte e tutti a festeggiare il 25 aprile in strada, per ricordare fuori
dalla retorica ma attualizzato nella vita di tutti i giorni, Dante Di
Nanni, un ragazzo che ha scelto di essere un partigiano in una
dimensione politica ed esistenziale allo stesso tempo; ha scelto la
resistenza come unica strada possibile per affermare se stesso e la
propria comunità contro la barbarie del nazismo e del fascismo.

Festeggiare
per conoscersi e conoscere le diverse realtà, per guardarsi negli occhi
e riconoscersi come persone che lottano e resistono tutti i giorni come
fecero le e i partigian* e per continuare a farlo insieme in futuro
attualizzando le lotte e per non perdere la memoria che ci permette di
continuare a vivere e a sognare.

Comitato 25 aprile zona San
Paolo

HO AMMAZZATO BERLUSCONI

torna a cinema

http://www.youtube.com/watch?v=HloSJFODdIk

 

Si può vivere per anni con una donna di sinistra, ma di sinistra sinistra, e poi votare per Silvio Berlusconi?
Per esser precisi: si può vivere con una donna di sinistra, votare per
Berlusconi e sperare che la vita prosegua come se niente fosse
accaduto? La domanda non è peregrina, e infatti Gianluca Rossi, e Daniele Giometto ne hanno tratto Ho ammazzato Berlusconi
(Italia, 2oo8, 88′), piccola opera indipendente, tanto nel senso della
produzione quanto nel senso delle idee. Sulla scorta di un libro di Andrea Salieri, il film racconta dell’ormai lontano 2oor; appena dopo le elezioni. In casa di Matteo (Alberto Bonanni) l’atmosfera è pesante. La sua Livia (Sabrina Paravicini) è in stato di agitazione. Riunita in salotto con le amiche, immagina improbabili contromisure. Dalla parete le osservano Che Guevara, nel ruolo storico, e Dario Fo,
nel ruolo di un caro parente. D’altra parte, così vuole la democrazia:
Berlusconi ha vinto, Berlusconi governa. Anzi, già che c’è, appare
anche in televisione, promettendo sfracelli uno dopo l’altro:
ovviamente, dal punto di vista di Livia.
Quanto a Matteo, lui preferisce chiudersi in un decoroso silenzio, che
abbia votato per il nuovo capo del governo, come sostiene la sua
compagna, o che solo si sia distratto e non abbia nemmeno votato. In
ogni caso, non è di sinistra sinistra. Come dirà più tardi a un
carabiniere, nella sua vita gli è capitato di votare un po’ per tutti,
e mai con entusiasmo. Ma torniamo al salotto rivoluzionario.
Disgustata, Livia se ne va di casa. In una notte buia e tempestosa, e
dal cielo le si abbatte in testa un’ala d’aereo. Ma ce n’est qu’un début, come si diceva una volta. Solo che allora s’aggiungeva continuons le combat, mentre
adesso Matteo non fa che precipitare verso il baratro. In quella stessa
notte buia e tempestosa, investe con l’auto un tale, che però non
muore. Muore invece quando lui, per errore, gli dà un colpo con il
crick. Allora, se lo porta a casa, lo ripulisce un po’ e scopre il
fatto: si tratta di Silvio Berlusconi, casualmente a passeggio sotto
l’acqua battente. Per rispetto, lo lava, lo pettina, lo trucca e gli
mette addosso quel che si trova in casa: una maglia dell’Inter. Molto
altro si potrebbe aggiungere, e infatti molto altro aggiunge il film.
Per esempio, che pur essendo morto e nel freezer di Matteo, Berlusconi
continua ad apparire in televisione. Oppure, che Matteo lo seppellisce
in giardino, mettendogli in bocca dei semi d’arancio, giusto per farlo
crescere e fruttificare. Ma qui basterà ricordare che alla fine nessuno
si preoccuperà della scomparsa del capo del governo. Il solo che invece
ne soffrirà, come per un fratello, sarà proprio Matteo. Se la politica
è questo – un uomo che parla in tivù, anche se è morto -, allora non
c’è più speranza. Al dunque, che cosa resta da fare, se non scavarsi
una fossa di fianco a quella di Berlusconi, mettersi in bocca dei semi
e poi ricoprirsi di terra? Almeno resta la speranza di dar buoni
frutti, prima o poi.
Da Il Sole 24 ore

WALZER CON BASHIR

torna a cinema

http://www.youtube.com/watch?v=-8f7n2VYF04

 

Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman

 

Giustamente premiato ai Golden Globe, un piccolo gioiello da tutti acclamato.
Il Manifesto: …un lavoro duro e impressionante…
El Pais: …oltre ad avere un talento straordinario, Ari Folman ha un ammirevole coraggio.
Il Messaggero: Il risultato è un film che cambia tutto il modo di fare cinema.
Corriere della Sera: “Valzer con Bashir” si avvale di animazioni più realiste delle immagini reali.
Il Tempo: …un film di animazione più reale, e realistico, di un documentario dal vero.
Il Giornale: …un cartoon per adulti, toccante e mai fazioso, quasi un viaggio psicoanalitico dentro un’amnesia
individuale e collettiva insieme
.
Panorama: Un
film d’animazione che non è un cartoon, un racconto di guerra che è un
viaggio nella memoria, un documentario che evoca fantasmi…

Variety: …un qualcosa di speciale, strano, originale e potente.
The Times: …un film potente, pacifista, fortemente personale…

Valzer con Bashir - LocandinaGrande
successo (di critica e di pubblico) all’ultimo Festival di Cannes, un
terribile atto d’accusa verso ogni guerra che commuove coinvolge
indigna angoscia… e il tutto con un ammirevole eclettismo di
tecniche impiegate – secondo i casi animazione classica,
tridimensionale, flash ed effetti speciali – e un’eccezionale
creatività del montaggio
(Repubblica).
“Valzer con Bashir” mostra con coraggio e
senza falsi pudori come ogni conflitto non sia altro che un insieme di
orrori, di paura, di disperazione, di vigliaccheria, di prevaricazione,
di ferocia, di traumi, di disumanizzazione, di mostruosità senza senso…
Di difficile collocazione per la coesistenza di stili diversi, il
film mescola abilmente il documentario politico e l’autobiografia, il
genere guerra e la psicoanalisi, la trascrizione di sogni – fantasmi,
reminiscenze – e una splendida animazione grafica
(Le Monde): in effetti nel lavoro di Ari Folman non sai se ammirare maggiormente la tecnica o il contenuto.

Nel fare emergere la memoria di una pagina buia della sua storia
personale e di quella del suo paese, il regista israeliano mostra come
realtà e immaginazione siano facilmente mescolabili: “Valzer con Bashir”
è, e al contempo non è, un documentario e una fiction (mirabilmente
fusi realismo surrealismo onirismo). Un’opera emozionante come poche,
innovativa nel modo di presentare le cose mediante tavole disegnate ed
effetti digitali, attuale più che mai oggi: una narrazione
psicoanalitica che costituisce un salutare pugno nello stomaco dello
spettatore, dall‘inizio alla fine.

Straziante e sconvolgente il finale. Si esce dalla proiezione incapaci di parlare.

Del suo film (ci son voluti ben quattro anni per realizzarlo!), Ari Folman ha detto: Il
messaggio è che ogni guerra è sbagliata. Dovunque nel mondo. Non è come
nei film americani, non c’è alcuna gloria nella guerra. Di solito i
giovani che guardano i film di guerra dicono ‘si, è dura là fuori, ma
c’è comunque un grande senso di amicizia tra i soldati… voglio esserci
anche io’… spero che con questo film dicano: ‘non vorrei mai essere lì’
.
Giustamente Dario Arpaio, commentando la pellicola, ha scritto:
Nessuno vince mai una guerra. Nei sopravvissuti restano solo immagini a due colori e qualche incubo ricorrente…
Per non dimenticare che la pietà non va alla guerra
.

Un vero peccato che il film venga distribuito in così poche sale.

 

MILK

torna a cinema

 

Uscite allo scoperto, apritevi alla speranza

a cura di
Massimo Borriello 

Il
film di Van Sant va a farsi voce e guida di una comunità, quella
omosessuale, ancora lontana dalla conquista di diritti fondamentali,
attraverso il canto di uno dei suoi eroi. Pur trattenendosi nel ricamo
visivo della pellicola, il regista rende comunque di notevole impatto
il narrato, assicurando grande importanza ad ogni singolo evento di cui
dà conto, della vita di Harvey Milk.
Uscite allo scoperto, apritevi alla speranza
L’arte,
talvolta, ha bisogno di essere messa da parte. Succede quando il
messaggio che si vuole far passare esige chiarezza totale per
raggiungere il pubblico e diventare tesoro. Così un’opera può
svincolarsi dalle esigenze estetiche dell’occhio più fine, facendo
della semplicità un’arma vincente con la quale farsi strada nelle
sacche di conoscenza di ogni individuo. Ne sa qualcosa Gus Van Sant,
uno dei geni assoluti dell’universo cinema, un regista che negli ultimi
anni ci ha regalato le più potenti immagini di quella favola nera che è
l’adolescenza, e che oggi arresta per un attimo il suo brillante
processo di sperimentazione per raccontare una piccola e significativa
storia senza lasciare che il suo estro, la sua dirompente genialità,
occluda la narrazione e il significato di cui si fa portatrice. Perché Milk
di Van Sant va a farsi voce e guida di una comunità, quella
omosessuale, ancora lontana dalla conquista di diritti fondamentali,
attraverso il canto di uno dei suoi eroi. E’ naturale che l’argomento
stia particolarmente a cuore al regista che pur trattenendosi nel
ricamo visivo della pellicola, rende comunque di notevole impatto il
narrato, assicurando grande importanza ad ogni singolo evento di cui dà
conto, della vita di Harvey Milk, il primo politico gay dichiarato ad
essere stato eletto a una carica pubblica negli Stati Uniti, quella di
consigliere comunale nella vibrante San Francisco degli anni ’70.

James Franco e Sean Penn in una scena del film MilkLa
figura di Milk è quella del condottiero, dell’ispiratore, che con le
sue ostinate e coraggiose battaglie politiche, che l’hanno portato
all’orribile morte avvenuta per omicidio nel 1978, è diventato icona di
un intero movimento. Van Sant sceglie di mettersi al suo servizio,
lascia che a parlare sia la sceneggiatura lineare, quasi scolastica,
scritta dal trentaquattrenne Dustin Lance Black
che ci racconta non solo dei traguardi di una vita, ma anche delle
rotte da essa segnate. Senza mai abbandonarsi al ricatto emotivo, tanto
che in certi passaggi si può addirittura avvertire una certa freddezza,
Milk si fa commovente quando rivela il messaggio più importante
dietro il racconto biografico: stringetevi nella speranza e continuate
a lottare. Se della meraviglia si può trovare nel film, è tutta nello
spirito di solidarietà che tiene insieme i personaggi, negli abbracci,
nell’aggregarsi per andare alla conquista un comune obiettivo: il
diritto all’esistenza, la possibilità di uscire allo scoperto senza
vergognarsi di sé stessi, senza il timore di venire schiacciati
dall’ignoranza altrui. L’amore che fa vibrare il film è una
resurrezione, ci restituisce quello spirito che tiene insieme gli
individui, quella fiducia che è essenziale riporre nell’altro per
ottenere il proprio riconoscimento. Trovandosi a maneggiare personalità
dal grande fascino, il regista può approfondire o limitarsi a
pennellare, con grande agilità, i personaggi, dotando ognuno di essi di
una dignità che si fa essa stessa significante.

Sean Penn in una scena del film MilkTalvolta
ridondante nel suo sviluppo, il film di Van Sant ha la capacità di
ritagliarsi, oltre la ‘cosa pubblica’, dei momenti di grande tenerezza.
Milk è stato un personaggio che ha dovuto lottare per diventare
pubblico, compromettendo inevitabilmente il privato. Chi gli stava
accanto non ha retto, schiacciato dalla distanza del quotidiano, ma
Milk ha avuto la forza di non impantanarsi nella solitudine, andando
dritto per la sua strada, nel suo sogno di sconfiggere i pregiudizi che
spesso si cibano dei soliti, agghiaccianti deliri cattolici secondo i
quali le fiamme dell’inferno sono pronte ad ardere quella diversità che
mette in pericolo l’idea di Famiglia così cara alla Chiesa. Non serve
neppure esprimere un giudizio su certe idiozie, così il film invece di
schernire si limita a mostrare la realtà con vocazione
documentaristica, compresa quindi la sua degenerazione, diventando in
questo modo opera di ampio respiro piuttosto semplice da accogliere. Sean Penn
si cuce addosso il personaggio di Harvey Milk, lavora con grande
meticolosità sulla gestualità e sulla voce, sulla mimica facciale e
sulle urgenze che muovevano il personaggio-simbolo che è chiamato a
interpretare. L’attore californiano non si risparmia e si regala al
pubblico anche nei baci che è disposto a scambiarsi con un James Franco
mai così bravo, al quale basta uno scambio di sguardi nel finale per
riscattare un’intera carriera. Proprio quel finale ci abbaglia, con le
mille luci che si alzano al cielo, e le ultime parole di Milk che
diventano per lo spettatore un lungo brivido, una lacrima che muore per
creare nuova vita, una carezza calda nella quale accucciolarsi, un
invito che va colto, custodito, e condiviso. Uscire allo scoperto e
aprirsi alla speranza. ‘La speranza di una vita migliore, la
speranza di un domani migliore. Perché senza speranza la vita non vale
la pena di essere vissuta.

 

CHE

torna a cinema

Il rivoluzionario Guevara senza romanticismi.
Soderbergh rinuncia all’epica hollywoodiana – tratto da "Corriere della sera"

Ernesto 'Che' Guevara, 1928-1967
Ernesto "Che" Guevara, 1928-1967

Si può raccontare la vita di Ernesto Guevara senza fare i conti con
il mito del «Che»? La sfida sembrerebbe impossibile: anche un film come
I diari della motocicletta, che ne raccontava la giovinezza
argentina, non riusciva a tenere a freno la contagiosa esuberanza del
protagonista. Affrontando invece i due momenti cruciali della vita di
Guevara, la rivoluzione cubana prima e la guerriglia in Bolivia poi in
un mega-film di oltre quattro ore che esce in due parti (adesso Che-L’argentino e a maggio Che-Guerriglia),
il regista Steven Soderbergh sembra essersi fatto guidare soprattutto
dalla voglia di raffreddare la materia e di affrontare con gli
strumenti della ragione quello che di solito si racconta con
l’entusiasmo del militante.

Caldeggiato fortemente dall’attore Benicio Del Toro (che si cala nei
panni di Guevara con sorprendente rassomiglianza) e dalla produttrice
Laura Bickford, il progetto del film ha cominciato a prendere forma più
di dieci anni fa, nel 1996, ma è diventato qualche cosa di concreto
solo nel 2005, dopo che la sceneggiatura è stata affidata a Peter
Buchman. È dal suo lavoro e da quello di Soderbergh che nasce l’idea di
privilegiare due soli momenti di tutta la lunga e avventurosa vita del
«Che» giocando continuamente al contrappunto: Cuba contro Bolivia ma
anche, all’interno della prima parte, teoria contro azione, utopia
contro (dura) realtà, rivoluzione contro (o a fianco di) politica.

Questa operazione non è evidentemente senza conseguenze: da una
parte permette al film di avere un andamento il meno hollywoodiano
possibile, lontanissimo dall’epicità finto-romantica con cui il cinema
americano ha spesso raccontato rivoluzioni e rivoluzionari (basterebbe
pensare all’orrendo Che! di Fleischer con Omar Sharif nei panni
di Guevara). E dall’altra offre al film la possibilità di «distaccarsi»
dalla materia raccontata per trasformare la storia in strumento di
(auto)riflessione, recuperando certi insegnamenti godardiani
sull’intreccio tra finzione cinematografica e inchiesta giornalistica
(non a caso Questa è la mia vita era uno dei modelli a cui Soderbergh si è ispirato).

Benicio Del Toro, classe 1967
Benicio Del Toro, classe 1967

Ecco perché Che-L’argentino gioca molto col montaggio,
perdendo di vista lo svolgimento cronologico delle azioni e invece
giustapponendo momenti della visita del «Che» alle Nazioni Unite nel
1964 a episodi della guerriglia sulla Sierra Maestra cubana del 1957/58
a momenti addirittura precedenti, come l’incontro tra Guevara e Fidel
Castro in Messico nel 1955. In questo modo frasi e dichiarazioni più
«programmatiche» (come erano le risposte ai giornalisti americani o i
punti salienti del suo discorso all’Onu contro l’imperialismo e la
sudditanza degli Stati sudamericani) trovano un riscontro immediato con
le scelte concrete fatte durante la guerra rivoluzionaria, anche loro
mostrate non per la loro forza epica ma piuttosto per quello che
possono «insegnare» e «dimostrare».

Così fa una certa impressione sentir dire a una giornalista
newyorkese che la prima qualità di un rivoluzionario è «l’amore» e
subito dopo vedere la decisione di abbandonare un compagno alle sevizie
dei soldati di Batista pur di non farsi scoprire, scelta che si spiega
solo capendo che quell’«amore» non va inteso in senso cristiano ma
rivoluzionario, perché il sacrificio di un militante giustifica la
possibilità della sopravvivenza del gruppo. O ancora, prima
dell’attacco alla caserma di El Ulvero, il discorso sulla inevitabile
vittoria dei rivoluzionari di fronte ai mercenari che sembra essere
contraddetto dai morti che i ribelli lasciano sul campo ma che finisce
per essere avvalorato dalla conquista della postazione. Ogni scena,
cioè, prende valore per quello che spiega e insegna sul percorso
rivoluzionario e non per la forza emotiva che può avere.

 
 

È per questo che il film andrebbe visto nella sua interezza di
quattro ore, perché la seconda parte funziona da contrappunto alla
prima e molte scene della prima rimandano alla seconda o trovano lì la
loro «conclusione» (come il discorso sui sedicenne che a Cuba non
possono partecipare alla rivoluzione e in Bolivia sì, salvo poi
scoprire che i primi si riveleranno dei veri rivoluzionari e i secondi
tradiranno). Ma la distribuzione ha leggi che a volte vanno contro a
quelle dei film e in questo modo Che-L’argentino finisce per pagare delle colpe che non sono del tutto sue.
Nella
sua unità/complessità sarebbe stato più chiaro il percorso di
Soderbergh. Così invece si rischia di accentuare troppo una scelta di
stile che sembra solo «contro» (contro il mito del «Che» ma anche
contro l’epicità troppo programmatica di certo cinema hollywoodiano) e
meno «a favore» (di un soggetto indubbiamente originale e lontano dalle
mode).


Paolo Mereghetti