Le nostre riflessioni sullo stato di emergenza

Le ultime settimane hanno segnato le nostre vite in modo profondo, facendoci piombare in una realtà che pensavamo distopica, ma che ci è arrivata addosso cambiando radicalmente le nostre vite. Una realtà che non eravamo (e non siamo) pronti ad affrontare, un cambio epocale di fase di cui dobbiamo ancora capire la reale portata. Allo stesso modo abbiamo sentito l’esigenza, come sempre, di superare le difficoltà individuali e personali, nel collettivo. Per questo negli ultimi giorni abbiamo creduto fondamentale parlare, discutere e confrontarci su quello che ci stava (e ci sta) accadendo. Il risultato è questo documento, una prima elaborazione, sicuramente parziale, che vuole essere un tentativo di condividere pensieri, timori, paure, proposte e rivendicazioni.

La prima cosa che questa pandemia ha dimostrato, in Italia, è il pessimo livello di salute del Servizio Sanitario Nazionale, che ancora nella mitologia popolare veniva citato come un fiore all’occhiello del nostro paese. Dopo 30 anni di politiche liberiste caratterizzate dall’aziendalizzazione della salute, da tagli progressivi al personale e ai posti letto e da esternalizzazione dei servizi, con finanziamenti sempre maggiori ai privati, il SSN mostra evidentemente le sue carenze. È noto a tutti che l’Italia è uno dei paesi OCSE più in basso nella classifica di spesa per la Salute (nel 2018 spendevamo il 68% in meno della Germania, il 47% in meno della Francia) e questa differenza di spesa non è senza conseguenze: per capirci la Germania ha 28.000 posti letto in terapia intensiva, mentre l’Italia ne ha soli 5.000, a fronte di una popolazione solo di poco inferiore.
Le proposte del Governo per sopperire a tale carenza sono perlopiù insufficienti e regressive: richiamare a lavoro gli operatori in pensione (paradossale se non irresponsabile, vista la raccomandazione del Consiglio dei ministri, per cui le persone anziane non devono uscire di casa); bloccare le attività ambulatoriali; cancellare i limiti all’orario massimo di lavoro per il personale impegnato nella gestione dell’emergenza; fare accordi con il privato non convenzionato.
Ancora una volta i costi economici non sono ripartiti in maniera equa e proporzionale ma si scarica il peso dell’emergenza sul pubblico e su una fascia della popolazione, si sacrificano i diritti del lavoro e si nascondono gli effetti reali che questa misura avrà sulla vita delle persone trasformando (il personale sanitario?) in eroi, costringendoli a invisibilizzare i propri problemi e i propri bisogni, schiacciati come sono tutti i giorni nelle pagine dei quotidiani tra santificazione e martirio. Nel frattempo si ragiona già di scegliere chi salvare in base all’età: qualche anno di troppo potrebbe costarti il posto in rianimazione.

Più in generale, sono le misure prese finora dallo Stato per la gestione dell’epidemia a lasciarci perplessi.
Sono misure che sembrano poco incisive, confuse, quando non chiaramente contraddittorie: ci domandiamo quale efficacia preventiva possa avere la chiusura di alcuni settori della produzione (come ad esempio il settore culturale) quando tutto il resto viene lasciato invariato, la maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici sono costrette a continuare a lavorare rischiando sia di essere contagiati sia di contagiare le/i figle/i e chi si occupa di loro mentre le scuole sono chiuse (magari proprio quei nonni che per sopraggiunti limiti di età sono le persone che più dovrebbero essere tutelate).
Sono misure che non ci soddisfano perchè di fatto negano che l’epidemia sia un fenomeno collettivo che dobbiamo affrontare tutte/i insieme per non lasciare indietro nessuno e scaricano invece tutto il peso della gestione dell’epidemia e dei suoi rischi sui singoli -soprattutto sulle donne- e su presunti “comportamenti individuali responsabili”.
Queste misure, oltre ad essere inadeguate a costituire un argine alla diffusione del virus, ci mostrano apertamente il loro carattere classista e sessista.
Le persone più esposte al contagio saranno infatti quelle lavoratrici e quei lavoratori che per motivi economici non possono permettersi di smettere temporaneamente di lavorare (prendendo ferie, congedi, aspettative),che si recano a lavoro con i mezzi pubblici, che lavorano in luoghi in cui non sono predisposte reali misure preventive (ovvero la maggioranza dei luoghi di lavoro), saranno i familiari di quelle lavoratrici e quei lavoratori che non possono permettersi di pagare una persona che badi alle bambine e ai bambini.
Allo stesso modo, le persone più esposte alle conseguenze economiche saranno quelle che non hanno scelta e saranno costrette a non lavorare: le precarie e i precari, che vengono lasciati a casa e perdono giorni di lavoro, ma anche quelle famiglie a cui è stato imposto di tenere i bambini a casa. In questo caso come insegna la storia sono le donne le prime a dover trovare soluzioni e a sacrificare il loro lavoro per l’organizzazione familiare.
Come possiamo chiedere a una persona di astenersi dal lavoro per il bene della collettività senza mettere in campo misure di sostegno al reddito che garantiscano alla persona e alla sua famiglia di sopravvivere alla fine del mese?

Per chi sostiene che se i supermercati chiudessero non ci sarebbe più nulla da mangiare, senza fare alcuno sforzo per immaginare soluzioni che costituiscano un’alternativa alla miseria dell’esistente, queste sono vittime sacrificabili.
Gli incentivi allo smart-working vanno nella stessa direzione: oltre a produrre isolamento, scaricano sulle lavoratrici e sui lavoratori il costo (monetario e sociale) che rappresenta “mandare avanti la produzione ai tempi di una epidemia”. Tanto per cambiare, il prezzo più alto non lo pagano le imprese, che non sono obbligate a fermarsi ne a mettere in campo misure per proteggere le/i lavoratrici/lavoratori, ma le persone che devono preoccuparsi di ri-creare in casa un luogo di lavoro idoneo (una postazione pc adatta, un luogo abbastanza silenzioso).

Queste, dunque, le condizioni date: un sistema sanitario che non viene messo nelle condizioni di garantire a tutte e tutti un’adeguata tutela, delle misure precauzionali governative che appaiono insufficienti sia ad arginare il contagio sia a tutelare le fasce più fragili della popolazione, dei media che continuano a rimbalzare informazioni contradditorie, passando da un clima di esasperato allarmismo a semplicistiche rassicurazioni “da bar”, che contribuiscono solo ad alimentare il panico.
Ci sembra che questa gestione dell’epidemia tenda a scaricare sulle singole persone la responsabilità del contagio, nascondendo le inefficienze del sistema dietro una continua ricerca del capro espiatorio, (l’individuo untore ma anche il popolo untore, prima i cinesi, ora i tedeschi), e che crei un isolamento progressivo, con la chiusura di tutti i possibili spazi di aggregazione e di socialità che escono dalle logiche commerciali, lasciando ognuna/o sola/o a gestire le proprie paure e preoccupazioni.
Di fronte a questa emergenza, che oltre ad essere sanitaria ed economica è eminentemente sociale e politica, quale ruolo giocano i centri sociali? Senza l’arroganza di avere tutte le risposte in tasca, ci sembra di poter individuare due ambiti di azione, ciascuno necessario se si vuole rifiutare la logica dei sommersi o salvati, ribadendo che l’unico modo per uscirne è uscirne insieme.
Il primo ambito è quello di comprendere se e come poter continuare le attività di aggregazione e condivisione, elaborando strategie per garantire la sicurezza di tutte/i senza, al contempo, dover rinunciare al motore di ogni azione politica condivisa che è la socialità. A noi sembra che questo, che è vero sempre, sia tantopiù imperativo di fronte all’isolamento in cui ci chiude il rischio di contagio, che non ci permette più di fidarci della nostra vicina, della nostra sorella e, in fondo, neppure del nostro stesso corpo, potenzialmente vettore di malattia e morte. Come rispondere alla sfida sta alla capacità creativa di ciascuno spazio, ma già sono state fatte diverse sperimentazioni.

Al contempo, però, dobbiamo anche organizzare la lotta e fare pressioni affinchè le evidenti falle che la pandemia ha aperto nel sistema economico e di governance non vengano tamponate con misure preventive e una vaga riduzione del danno (quanti soggetti deboli si è disposti a sacrificare pur di mantenersi in vita?). Noi crediamo che il cambiamento di passo nel modello produttivo e sociale debba avvenire a partire da ora, e proprio attraverso la soluzione della crisi, non quando le acque torneranno calme. Chiediamo quindi che vengano messe in atto delle misure espansive di risposta alla pandemia, come ad esempio:
rifinanziamento del SSN con assunzione di precari e disoccupati e senza chiamare al sacrificio chi già lavora e chi è in pensione;
obbligo alla solidarietà della sanità privata, che dopo anni in cui si è arricchita alle spalle della popolazione, restituisca parte del maltolto e contribuisca, senza ulteriore spesa pubblica, alla risoluzione della crisi;
investimento nella scuola con assunzione dei precari e organizzazione di attività con classi numericamente compatibili con la riduzione del rischio di contagio senza gravare sulle singole famiglie;
introduzione di un reddito di quarantena che garantisca a ciascuna/o di poter proteggere la propria salute e quella degli altri senza il ricatto dell’impiego.

Consapevoli di non avere nessuna soluzione o verità assoluta, continuiamo a condividere riflessioni e strategie collettive per non lasciare nessuna/o indietro, nella solitudine di una paura che ci faccia accettare supinamente ogni misura presa su di noi e le nostre vite in nome dell’emergenza, senza renderci conto di come queste misure eccezionali stiano già dando forma ad una nuova, mostruosa normalità, fatta di isolamento, dell’egoistica corsa al “si salvi chi può come può”, di relazioni ed istruzione coltivate unicamente nel mondo virtuale, per smascherare gli interessi economici che vengono tutelati nelle scelte di contenimento dell’epidemia e le falle del welfare pubblico devastato da anni di privatizzazione, per garantire spazi di condivisione e di sorellanza di fronte alla logica che ci lascia solo panico e sospetto.

CSOA Gabrio

NOTA AGGIUNTA IN SEGUITO: quello che in queste ore sta accadendo nelle carceri italiane è spaventoso oltre che criminale. Siamo solidali con tutti/e i/le detenuti/e in rivolta. Amnistia subito.